Alexandre Quaranta
Maya, che hai fatto di Me?
3ème Millénaire n. 87 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini
Contemplazione del
muro illusorio.
“ Come uno spettacolo di magia, come una pittura o un
vortice, così si deve giungere a
percepire l’universo nella sua integrità; da questa meditazione fiorirà la
felicità” (Vijnana
Bhairava Tantra . versetto 79 )
“Io sono dappertutto: è realizzando quello, che ci si distacca dal proprio corpo. Ben fermo in quella visione, senza preoccuparsi di nient’altro, si ottiene la felicità” (idem. Versetto 81)
“Tutti gli esseri che possiedono un corpo hanno un’identica
percezione del soggetto e dell’oggetto. Ma quello che
caratterizza lo yogi è l’attenzione continua all’unione tra soggetto ed
oggetto” (idem. Versetto 62)
“Si, è il cammino della magia e può darsi che tu abbia già fatto il passo più difficile in questa via.
L'esperienza che hai vissuto è questa: il mondo esterno può diventare il mondo
interiore. Sei andato al di là dell’opposizione tra due termini
contrari, ed era l'inferno per te. Sappi, amico mio, che quell’inferno è il
cielo! Perché è proprio il cielo che si apre davanti a te.
La magia consiste nel poter cambiare l’uno contro l’altro, non sotto i colpi
delle contrarietà o della sofferenza, come hai fatto tu, ma liberamente,
volontariamente. Pensa al passato, pensa al futuro: tutti e
due sono in te! Fino ad ora sei stato lo schiavo dei tuoi pensieri.
Impara a diventarne padrone. E’ questa la magia.” ( Herman Hesse)
Nelle nostre vite di esseri dotati
dell’insolito dono della coscienza, possiamo vedere all’opera diverse forme di
illusione e a volte toglierne il velo. Quando si fa più acuto il nostro
discernimento, quando prendiamo coscienza per la prima volta che siamo la vittima
consenziente, fortunata o sfortunata, di una illusione, viviamo un momento di
comprensione che riguarda il funzionamento su uno o l’altro piano. Può
verificarsi sul piano psicologico ( per esempio
l’inganno di papà Natale, il modo in cui creiamo certe paure, il meccanismo di
proiezione nei conflitti o nella vita amorosa, ecc ), o quello della percezione
visiva ( illusioni ottiche, miraggi, figure impossibili, ologrammi, cinema, ecc
).
E poi c’è un altro
tipo di illusioni, più centrali, più intime, più
trasparenti, insospettabili (perché la
loro negazione sembra inverosimile) nel quotidiano e perciò potenzialmente più
difficili da scoprire.
Sono le illusioni che hanno a che fare col senso ordinario e
abituale dell’identità e con la visione della natura della realtà.
Queste illusioni sono indissociabili da quella cosa
immediata e fondante che è la coscienza che pensiamo di avere di noi stessi e
dell’immagine che ci facciamo del mondo.
Vorremmo qui proporre semplicemente una contemplazione su di
un aspetto che sembra ordinariamente imporsi da solo. Prima di procedere oltre,
vorremmo tuttavia dire che siamo tutti a
nostro modo dei metafisici inconsapevoli. Vale a dire che, senza
necessariamente dircelo in modo chiaro, prendiamo, che lo vogliamo o no, delle
posizioni filosofiche riguardanti la natura della realtà, la natura della
nostra ultima identità ( o l’assenza di una tale non cosa ). Facciamo l’ipotesi
che ci sia una identità più originale, più profonda di
quella con la quale funzioniamo e a cui generalmente ci riduciamo.
Più semplicemente e più rapidamente, forse troppo, ma in
ogni caso chiaro e preciso, è probabile
che la maggior parte di noi si rappresenti il reale con un certo numero di
parametri che sembrano andare da sè. Così possiamo per esempio immaginare che
siamo o abbiamo un corpo apparso da una nascita causata dai genitori.
Immaginiamo che questo corpo esista sulla Terra, di fronte ad altri oggetti e
ad altri corpi, e che la Terra esista nello spazio, uno spazio che si immagina estendersi all’infinito fino ai limiti o
all’assenza di limiti più o meno fluidi dell’Universo. Noi ci viviamo come
delle individualità che sono coscienti e
pensano.
I pensieri, nel senso più largo, stanno in una testa abitata
da un cervello. E siamo oggetti tra altri oggetti, che
pensano in una scatola. In più, possiamo essere equipaggiati, grazie
all’attività della scatola sopra le spalle,
con ogni sorta di spiegazioni sapienti o stupide, che possono, col
tempo, farci perdere di vista che tutto questo affare è strano e inverosimile, che non va veramente,
veramente, veramente, da sé.
E,
certo, c’è la morte! Cioè la fine dell’agitazione
della carne e dei pensieri e di ogni attività della piccola scatola sopra le
spalle che fa la nostra identità. Il nostro ciclo identitario che ci si
rappresenta abitualmente: “io sono un corpo apparso
alla mia nascita, che si è sviluppato, con uno psichismo, che dura un certo
tempo e che cessa con la morte del corpo e del cervello”.
E’,
diciamo, la visione materialista. Senza dubbio è la visione della
maggior parte di noi, malgrado eventuali strati di credenze alternative. Che la
si sostenga, consciamente o no, nelle pieghe di ognuno delle nostre
coscienze individuali, non cambia niente rispetto al fatto che fornisce una
specie di visione del mondo standard estremamente perversa, perché ci fa
nascondere il mistero assoluto, il miracolo radicale, l’infinito inverosimile,
la sovrabbondanza del fatto che ci sia qualcosa piuttosto che niente.
Da questa visione di una individualità
isolata dal resto dell’universo, contenuta nell’universo, confinata nei limiti
del corpo, la cui attività più misteriosa sembra confinata, e confinata come
luogo nella scatola cranica, deriva naturalmente l’idea che ci sia un ME, che
ci sia ciò che è all’esterno del ME. Tra l’esterno del ME e l’interno del ME si
erge una parete, associata dunque a questa idea
che può essersi fatta da noi stessi.
Questa parete assomiglia a una specie di muro di
Berlino della dualità. Ma è un muro di Berlino un po’
speciale, un muro di segregazione e di divisione che non ha un equivalente
terrestre o extraterrestre. Dapprima questo muro appare alla maggior parte di
noi come una evidenza
tranquilla e che non è un grosso problema nella vita, molto meno grave del
potere d’acquisto, il tasso delle grandi banche o il riscaldamento del pianeta.
Questa parete è vista separare lo spazio che possiamo definire interiore dallo
spazio fisico esterno infinito, in cui il pezzo di cosa articolata a cui ci riduciamo, il nostro corpo, evolve e si bagna come un pesce
nell’acqua.
Questa parete è illusoria, diciamolo
francamente. Non esiste più della settima zampa del
coniglio (se si lasciano da parte i conigli che galoppano attorno a Chernobyl).
E’ illusoria, ma bisogna farla volare in pezzi. Ed è
solamente quando avremo fatto saltare in aria quella
illusione che potremo realizzare che non è mai realmente esistita, anche se
potrà in altri momenti ricomparire.
Non esisteva che perché non facevamo attenzione al fatto che
strutturava illusorie nozioni di interiorità ed
esteriorità, di fronte alla nostra intimità intoccabile e alla nostra identità.
In altre parole, nello stesso momento in cui possiamo prendere coscienza della
realtà della sua esistenza illusoria, svanisce in uno stupore spazioso, che ci
lascia senza dimensioni né localizzazione.
La questione dunque è come fare implodere o esplodere quel
muro illusorio, ma anche separatore, come esploderebbe una cristalleria sulla
quale atterrasse un paracadutista non duale della legione straniera. Come e dove mettere quel muro invisibile di cui molti
parlano come uno scherzo, che è possibile accorciare, che è durato abbastanza a
lungo e che si rivelerà non essere mai
esistito nel momento in cui cesserà? Perché non
cesserebbe ORA?
Ebbene, tutti i mezzi sono buoni; ecco una
lista non esaustiva: fare veramente finta che non sia mai esistito, dedicarsi
alla pratica del sogno notturno lucido fino a VEDERE apparire il mondo in ME,
meditare sull’aforisma di Stephen Jourdain: “Cosciente di questo pensiero. Non sono questo pensiero. Niente di questo pensiero.”;
utilizzare le tecniche di decapitazione di Douglas Harding; divorare un
pacchetto di bonbon de chez Haribo che
espandono la coscienza (attenzione ai coloranti che possono provocare indigestione);
abbandonare definitivamente il pensiero
– rappresentazione che la nostra testa è nello spazio e convincersi fino alla irrevocabile certezza che lo spazio è nella nostra
testa, proprio per vedere ciò che quello produce; rileggere la collezione di Troisième Millénaire; andare a fare un giro al planetario e
identificarsi col proiettore; girare la nostra testa (preferibilmente quella
che non c’è, è meno doloroso ) di 180 gradi come nel film “ L’esorcista” e
VEDERE che dietro non c’è niente.
Il mezzo che suggeriamo oggi consiste nel sedersi alla terrazza di un caffè, possi
bilmente con vista panoramica su un mercato con grande
passaggio e porsi il più seriamente e onestamente possibile le seguenti
domande:
Il luogo in cui i miei sentimenti, le mie impressioni, le
mie sensazioni appaiono e si svolgono è lo stesso di quello in cui i passanti vanno e vengono?
Se
si pensa che si tratta dello stesso spazio, considerare la domanda: che cosa è
che mi separa da tutto ciò che è e da ciò che appare nel mio campo di
coscienza?
Se
si pensa (e si potrà eventualmente interrogarsi per sapere CHI pensa) che non si tratta di due dimensioni
differenti, di due spazi differenti e che c’è una separazione tra i due l’uno
di fronte all’altro, considerare la domanda: come provo a me stesso che questa separazione è veramente reale?
Con un po’ di passione, la grazia o un insolito sovrappiù di
vigilanza, potrebbe accadere che Maya svanisse per lasciare la scena
alla magnifica danza di sua sorella Lila.
Questo getta potenzialmente un nuovo chiarimento sul testo
indiano tradizionale che dice che “quando esplode il muro, TUTTO è UNO e TUTTO
esce da ME. E se la parete si
ricostituisce, col beneplacito di Maya, tutto è ancora luce” (tratto da “Stances de la cloison
illusoire”).