3ème Millènaire n. 88 – Traduzione della dr.ssa Luciana
Scalabrini
3M. L’immaginazione
creativa è una questione insoluta, tanto sembra sfuggire al contemporaneo disabituato.
Come artista pittore e scrittore potete chiarire un po’ questa questione?
G.B: Il tema dell’immaginazione creativa è un falso problema
che riconduce sempre alle due immaginazioni, quella fantasiosa e quella
creativa. Parlare dell’immaginazione creativa non ha interesse se questo serve
a creare, ed è per questo che, come pittore, parlo delle mie esperienze e non
di astrazioni concettuali sull’immaginazione.
Ora, con la mia esperienza, percepisco la creazione
nell’immediatezza dello sguardo, nel puro vissuto dello sguardo che incontra un
oggetto. Nel nanosecondo di quell’incontro c’è una sostanza che sarà la materia
con la quale la coscienza si va verbalizzando, formalizzando.
Ciò che chiamiamo la creazione è corollario della Creazione,
un saper fare, una lotta con se stessi, con le proprie idee, con la propria
scienza, per arrivare a cogliere quella sostanza in ciò che è puro vissuto.
La vera Creazione è prima di questo, lei non è più nel modo
in cui il panettiere fa la pasta poi la fa cuocere, lei è nel grano che è
diventato pasta. Ora giustamente, tutto quel lavoro del panettiere è quello che
comunemente si chiama la creazione.
3M. Infatti
consideriamo ingenuamente le cose dal punto di vista dell’opera. E’ a partire
dall’opera che consideriamo la creazione immaginando che colui che vi ha
lavorato l’ha creata. Ciò che dite è che la creazione è di qua.
G.B: E’ quello; a partite dal momento in cui l’occhio si
posa su un oggetto, c’è un’informazione trasmessa dal sistema ottico al
cervello. Il cervello tratta quella informazione e nello stesso tempo cambia
lui stesso. Trasforma la nostra coscienza creandone una sostanza.
C’è qualcosa che è sorto, un enigma che si è creato; e
questo enigma richiama un nome che si rifà alla nostra tradizione, alla nostra
cultura. E’ lì che diventa tutto complicato, perché si tratta di evitare che
questo assolutamente nuovo diventi qualcosa di convenzionale. Attraverso le
convenzioni, l’apprendimento, o la cultura, si tratta di far passare qualcosa che non è nel conosciuto, né nella
cultura, ma in una sostanza che si è creata in noi e che è tutt’altro che la
soggettività. Questo non è semplice, al contrario, perché come trattare quella
sostanza innominata, sempre nuova, che non è affatto di questo mondo? E’ come se
quella sostanza venisse da un altro tempo, come se non fosse inclusa nella
cronologia, come se ci fosse un’istantaneità coerente, come se sorgesse un
mondo senza nome, senza forma, senza contrario.
Il sorgere di un mondo assolutamente sconosciuto, ma con una
forza così straordinaria che per arrivare a sopportarla siamo obbligati a darle
una forma, a trasformarla per farne qualcosa che può esistere nella
temporalità, nel tempo che viviamo.
3M. Affrontare la
creazione allora non è senza rischio.
G.B: Sicuramente, certi vi hanno perso la ragione. La
creazione è così potente che può far saltare i livelli di guardia che ci
permettono di vivere. Governare quella sostanza che è come un vulcano è un
grandissimo problema personale. Infatti l’immaginazione creativa non crea
un’opera, ma crea noi stessi, crea la coscienza.
La nascita di un’opera d’arte è nel confronto tra due mondi
che non ubbidiscono assolutamente alle stesse leggi.
Ed è sorprendente che da quei due mondi estremamente
differenti la trasformazione che si opera non ci faccia esplodere; perché la
creazione dovrebbe fare esplodere la nostra coscienza, farci perdere il limite
che è la ragione, farci perdere la relazione con il linguaggio verbale. Quello
che succede d’altronde in un certo modo nel poeta, che, quando parla della
rosa, non parla più della rosa, ma di un
incontro che c’è stato senza che nessuno sappia che cos’è quell’incontro. Il
poeta prova a dire con le parole ciò che non ha parole. E’ il dramma di
Mallarmé esposto nel suo testo “igitur”.
3m. C’è allora il
mistero dell’incontro tra l’essere che siamo e il mondo.
G.B: E in quel mistero, non sappiamo bene se è il pittore
che dipinge la cosa o se è la cosa che si dipinge attraverso il pittore.
3m. E lo spettatore?
G.B: La soggettività è soprattutto nello spettatore. Perché
lo spettatore, anche lui, incontra un oggetto sconosciuto guardando un quadro.
Ma su quel quadro la maggior parte delle persone cerca senza saperlo di
proiettare se stessa.
Le persone si attendono dall’immagine uno specchio che gli
parli di loro ed è qui la soggettività al di fuori dalla creazione. Lo
spettatore dunque deve, anche lui, diffidare della trappola che sta nel “mi
piace” e “non mi piace”. Questa tendenza blocca il dialogo con il non conosciuto,
impedisce l’incontro. Quando con i nostri pregiudizi diciamo mi piace o non mi
piace, vediamo noi stessi nell’opera. Ma un’opera d’arte è lì per portarci in
una dimensione di noi che è il nostro essere e non per condurci alla storia
dell’arte, alla scienza, ai nostri problemi familiari ed alla nostra
soggettività. L’opera d’arte ci porta ad una dimensione di noi stessi, dove si
forgia il vero pensiero, dove ciò che pensa e si pensa in noi è più
importante di noi. A partire da qui lo spettatore diventa
creatore dell’opera d’arte.
3m. A parte che oggi
le opere d’arte si fanno rare, e gli spettatori molto meno creativi e
contemplativi; loro sono piuttosto disabituati senza nemmeno comprendere questa
situazione, che tuttavia li interroga.
G.B: L’epoca in cui siamo ha orrore della creazione, perché
dietro quel termine c’è il sacro che fa paura. L’accademismo della nostra epoca
consiste nel racchiudere l’opera d’arte nei problemi oggettivi e sociali, cioè
nei problemi della relazione tra l’uomo e la società che invariabilmente
riconduce tutto al denaro.
Così una scatola di conserva posta in un museo trae il suo
valore dal fatto di essere vista dalla gente e dai discorsi che suscita.
Come dice Andy Warhol “dietro i miei quadri, non cercate,
non c’è niente”. Ma quel niente non è affatto l’assenza del me, dell’uomo che
realizza il puro vissuto della prima impressione. Quel “niente”” di Andy Warhol
e di tutti quelli che lo seguono non è
che una rivendicazione del “niente” al di là delle frontiere sociali.
Questa concezione, derivata dal marxismo, dice che l’uomo
non è fatto che per la società. I dadà
avevano una questione sulla dimensione dell’uomo, ma la risposta non è mai
stata all’altezza della domanda. L’impasse dell’arte contemporanea è la prova che
si pone un’altra domanda, a partire dall’arte ed evidentemente sull’uomo.
3m. Mi sembra che
l’immaginazione o la creazione sia per voi lo specifico dell’umanità, di tutti
i tempi, perché fuori dal tempo.
G.B: Quando parlo della creazione, parlo anche dell’uomo
della preistoria, così come di Poussin, perché si tratta sempre di tentare
di fissare l’invisibile nel visibile.
Quando l’uomo preistorico vedeva un bisonte in corsa,
avveniva qualcosa in lui: sapeva che vedeva altro rispetto al bisonte che correva.
Raccoglieva quella sostanza misteriosa che lavorava per farne un bisonte in
corsa. Ed è la stessa cosa che fa Poussin, anche lui, che, prima di mettersi al
lavoro, ha una visione creatrice che ha dell’impreciso e del senza limite. Ed è
quell’illimitato che recupera per creare opere terribilmente e giustamente
condotte con tutta quella disciplina del 17° secolo, che si ritrova per esempio
in Racine. E’ questo l’enigma di cui si tratta. Ed è così con tutti i pittori
autentici, che siano Manet, Van Gogh o i Cubisti, il processo parte sempre da
quella impressione, che non ha alcun senso, alcuna forma, alcuna parola, ed è
un puro incontro con il mondo.
Bisognerebbe vedere che cos’è quel puro incontro col mondo
basandosi, per esempio su Husserl, che, nelle “Meditazioni cartesiane” ha
descritto bene il “me” che diventa trascendentale.