Serge Cafarnan
3ème Millénaire n. 86
– Traduzione a cura della Dr.ssa Luciana Scalabrini
La paura ha un oggetto? O
piuttosto, come pensa la maggior parte di noi, bisogna riconoscere che la paura
non ha un oggetto, perché è così visceralmente ancorata in noi che è già nella
mente prima di avere un oggetto?
La paura, il non
conosciuto e la dualità
Esiste una formulazione di questa ipotesi
nella rappresentazione comune. Se è un opinione ricevuta
e che punta in questa direzione, è che la paura sarebbe fondamentalmente la
paura dell’ignoto.
Guy
de Maupassant, a partire da questo presupposto, ha scritto
una breve novella, “La Paura”. In un treno che viaggia di notte il narratore parla
con un vecchio signore che guarda verso la porta. Improvvisamente,
apparizione fantastica, attorno a un fuoco, fuori, a
mezzanotte, due uomini barbuti, irsuti, seduti attorno a un fuoco mentre la
notte d’estate è afosa.
“Vedemmo questo in un
secondo: erano, ci sembrò, due miserabili rossi alla luce del fuoco con le loro
facce barbute rivolte verso di noi, e attorno a loro, come uno scenario, gli
alberi verdi, di un verde chiaro e lucente, i tronchi colpiti dal vivo riflesso
della fiamma. Il fogliame attraversato, penetrato, bagnato
dalla luce che vi colava dentro. Poi tutto ridiventò nero come prima.”
“Certo, fu una visione molto strana! Cosa
facevano nella foresta quei due? Perché quel fuoco in una notte afosa?”.
Lo spettacolo non avrebbe provocato nessuna
impressione se ci fosse stata una conoscenza dei motivi per i quali i
due uomini erano là. Non si conosce il perché di quella apparizione.
Allora dal profondo sale un’angoscia sorda, una vaga inquietudine, un
turbamento che non chiederebbe che di trasformarsi in spavento se invadesse
completamente il campo. Non si ha veramente paura che di quello che non si
comprende. Il leitmotiv della novella.
Turgenieff racconta un giorno che, dopo essere stato a
caccia in una foresta russa fece un bagno in un fiume. Una mano si posò sulla
sua spalla e ciò che vide fu un mostro famelico, una specie di gorilla
terrificante che lo fece fuggire fino a che un valligiano non cacciò a colpi di
bastone il mostro. L’essere spaventoso era un folle che viveva da trent’anni
nel bosco e passava la metà del giorno a nuotare nel fiume.
Un po’ più il là
ancora nel testo di Maupassant, c’è ancora la storia dello spavento del
narratore per aver visto passare una carriola che non era guidata da nessuno.
In realtà lui cercava, in cattiva posizione per vedere, la statura di un uomo
ed era un piccolo bambino che la spingeva.
In quei tre esempi, la paura scompare con la conoscenza del
fenomeno, essa non si mantiene che nell’ignoranza delle cause. Nasce dall’ignoranza, sembra. L’ombra dell’ignoranza lascia
il terreno libero all’immaginazione e l’immaginazione
partorisce la paura connessa all’ignoto, dandole una forma. Ora, grazie alla
scienza, disponiamo in ogni cosa di spiegazioni e facciamo retrocedere la paura connessa con il
non conosciuto. Ma giustamente Maupassant giustifica
la paura volendo difendere nell’ignoto l’inconoscibile e il mistero. Il vecchio
signore replica: “Come doveva essere la
terra una volta, quando era tanto misteriosa!”
Nella misura in cui si squarciano i veli dello sconosciuto, si impoverisce l’immaginazione degli uomini. Non trovate,
signore, che la notte è vuota di un nero intenso, da quando non ci sono più
apparizioni?
Ci si dice: più fantasia, più credenze strane, tutto
l’inesplicato è spiegato. Il soprannaturale si abbassa come un lago esaurito da
un canale; la scienza, di giorno in giorno, riduce il limite del meraviglioso.
Ebbene, io, signore appartengo alla vecchia razza, che vuole
credere. Appartengo alla vecchia razza ingenua
abituata a non capire, a non cercare, a non sapere, fatta per i misteri
che la circondano, che si rifiuta alla semplice e pura verità.
“Si, signore, si è spenta l’immaginazione indagando
l’invisibile. La nostra terra mi sembra un mondo abbandonato, nudo e vuoto.”
Molte idee si scorgono in questa diatriba, che va districata
con delle domande:
a)
In quale misura la
paura è generata dall’immaginazione?
b)
La paura precede in
qualche misura la forma che essa può prendere?
c)
Può esserci la paura
dell’ignoto?
a)
Sulla prima domanda,
nessun dubbio che l’immaginazione, giocando il suo ruolo sull’emozione, possa
sviluppare la paura. Dal momento in cui appare una situazione sotto forma di un
pericolo, il mentale si mette in movimento e molto rapidamente fa le sue
costruzioni. L’immaginazione produce la figura dell’invisibile, un
fantasma per dare un oggetto alla paura.
Da un’emozione passeggera, l’immaginazione fa un danno terribile e di un incidente fa un dramma. Avvicinarsi al pericolo e conoscerlo meglio rallenterebbe il mentale e diminuirebbe la paura. Allontanarsene e fuggire non fa che rinforzarla, perché è privarsi del punto d’appoggio dell’incontro con il reale. Un pericolo che fuggo mi terrorizza, un pericolo che incontro mi trasforma e trasforma la mia paura. Il solo fatto d’agire e di far fronte è essenzialmente azione contro la paura. Alain (Les passions et la sagesse) lo dice con finezza:“Si è visto anche che la paura è più grande da lontano e diminuisce quando si avvicina. E questo non è perchè si immagina il pericolo più grande di quello che è; non è per quello, perché all’avvicinarsi di un danno vero ci si riprende. E’ proprio l’immaginazione che fa paura, per l’instabilità degli oggetti immaginari, per i movimenti precipitosi e interrotti che sono l’effetto e allo stesso tempo la causa di quelle apparenze, infine per un’impotenza d’agire che tiene meno alla potenza dell’oggetto che alle deboli prese che ci offre. Nessuno è bravo contro i fantasmi. Così il bravo va alla cosa reale con una specie d’allegria, non senza un che di paura, fino al momento in cui, l’azione, dove è difficile, con la percezione esatta, lo libera del tutto. A volte si dice che allora dà la vita; ma bisogna capire bene: non si dà alla morte ma all’azione”.
Che la paura sia
intimamente legata al lavoro sotterraneo del mentale porta
a un’altra ipotesi che Alain formula così: “non c’è altra paura, a ben
guardare, che la paura della paura. Ognuno ha potuto notare che l’azione
dissipa la paura e che la vista di un pericolo ben chiaro spesso la calma;
invece che, nell’assenza di percezioni chiare, la paura si nutre di se stessa, come lo fanno vedere bene
quelle paure smisurate all’avvicinarsi di un discorso pubblico o di un esame”.
Perché la paura si nutra di se stessa, bisogna che il
pensiero generi la paura di un pensiero e così materializzi un’illusione; così
il fantasma ha ormai preso corpo, perché frequenta i percorsi che la mente
attraversa, non essendo altro che un’idea fissa contro cui
la mente è condannata a battersi. Se ho paura della paura, la paura farà
liberamente carriera sotto tutte le forme possibili e
immaginabili. Se potessi non aver più paura della
paura, cioè non spaventarmi per un’idea, avrei finito con quel fantasma
ingombrante.
b) Ma posso darmi una
ragione primordiale, una ragione metafisica. Questa volta. L’ultimo rifugio,
per tentare di esorcizzare la paura, sarebbe di darle una consistenza, in quanto attributo fondamentale dell’essere. O piuttosto,
se, come ammette Sartre, l’incontro con l’esistente, è l’incontro con la sua
nudità dell’assurdo, allora la mente
costantemente va verso il non senso e l’angoscia è la
prima delle relazioni con l’essere. E’
un tema che è stato sviluppato molto dall’esistenzialismo, da Kierkegaard a
Sartre, passando per Heidegger e che si ritrova nell’aristocratico del dubbio e
dell’assurdo che è Cioran (Le livre des leurres):
“Aver paura di Dio, della morte, della malattia, di se stesso, non spiega per nulla il fenomeno della paura. Essendo la paura primordiale, può essere presente anche senza quegli oggetti”
Dire che la paura è primordiale, si può definire in due
sensi: è dell’ordine di un sentimento
vitale, di una emozione vitale impossibile da
sradicare, perché consustanziale al solo fatto di vivere, o la paura è
attinente alla coscienza dell’esistenza che porta in lei il faccia a faccia con
una sorta di “cosa” che improvvisamente produce la paura. Angoscia diventa
allora una sorta di sentimento primo, metafisico, che precede ogni modalità psicologica. Il seguito del testo di Cioran ha questa ambiguità: “Il niente è causa di angoscia? Al
contrario: l’angoscia è più verosimilmente la causa del niente. L’angoscia è
generatrice dei suoi oggetti, fa nascere le sue cause. Così l’angoscia è in sé
senza causa” (Cioran: Le livre
des leurres). Dire dell’angoscia che è in sé
senza causa vuol dire che è senza oggetto. Se non ha oggetto non è intenzionale. Il pensiero, come si struttura nella vigilanza, è intenzionale. Il pensiero della
vigilanza si estende nella dualità soggetto/oggetto ed
è intenzionale. Se qualcosa come l’angoscia potesse esistere prima di ogni intenzione, sarebbe prima di ogni pensiero, e se
bisognasse attribuire a quella cosa una relazione con l’Essere, dovremmo
concludere che l’angoscia è un pathos primitivo che viene dall’esistenza senza
causa. Una volta ammesso questo presupposto, allora niente impedisce di
giustificare favorevolmente la paura, dicendo che è bene per la sua
sopravvivenza che l’uomo abbia paura, o che l’animale possa avere paura.
“Da quando gli animali non hanno più bisogno di avere paura
gli uni degli altri, cadono nella stupidità e prendono quell’aria desolata che
vediamo nei giardini zoologici. Gli individui e i popoli
offrirebbero lo stesso spettacolo, se un giorno arrivassero a vivere in
armonia, a non temere apertamente o di nascosto” (Cioran: De l’Inconvénient
d’etre né ) Sottinteso: la relazione armoniosa con ciò che è sarebbe
nociva, devitalizzante e la disarmonia della paura è vitalizzante, mantiene la
vigilanza, l’assenza di paura sarebbe istupidimento. Come se fosse necessario
tenere sveglio l’uomo con la paura e che senza quella
cadrebbe nel torpore. Allora la paura è come il caffè, l’alcol
le droghe ecc.: costringono alla vigilanza, impediscono il riposo e
mantengono la tensione della vigilanza sul chi vive.
Tutti i presupposti che stiamo
esaminando attengono strettamente allo stato dell’intenzionalità e della paura
dell’ignoto. Ogni analisi della paura deve dare un’attenzione fondamentale a
questi due aspetti: la relazione tra la paura e la dualità e l’interpretazione
della paura come paura dell’ignoto.
Se scartiamo ogni presupposto e osserviamo molto da vicino ciò che appare nel vissuto cosciente, faremmo fatica a trovare un senso all’espressione “paura dell’ignoto”. Il bambino che ha lasciato la mano di sua madre e cammina a fianco dell’alligatore allo zoo, non ha paura. E’ sua madre che è terrorizzata perché sa che l’alligatore può essere pericoloso. E’ per questo sapere che ha paura, e nient’altro. Sa che l’animale può divorare un bambino, ha visto dei film dove anche un uomo è divorato, nel pensiero ha l’immagine della paura, una rappresentazione conosciuta che genera la paura. E’ perché il conosciuto è proiettato sullo sconosciuto che lo sconosciuto prende una forma. E’ la forma minacciosa, terrificante che fa paura. E siccome tendiamo a proiettare sullo sconosciuto i nostri terrori, ne risulta immediatamente che ne abbiamo paura. Ciò di cui abbiamo paura non è lo sconosciuto. E’ la forma terrificante del conosciuto proiettata nello sconosciuto. Lo sconosciuto in sé non può fare paura. Non fa paura perché non è più lo sconosciuto, ma lo sconosciuto ricoperto da una maschera ben conosciuta, di una maschera che il pensiero ha proiettato. Credere nell’esistenza di una maschera è proprio dell’illusione. Procedere nell’ignoto non è in sé niente di terrificante, è perfino il privilegio di una mente che liberamente si stupisce, si risveglia e si meraviglia. E’ la caratteristica di una mente posta in uno stato supremo di acutezza, di lucidità. Quel risveglio non ha niente a che fare con la paura. Il risveglio si tiene per se stesso, in se stesso; non è la paura che tiene l’uomo sveglio, è il Risveglio stesso. Ma vedere, con una proiezione del pensiero, davanti a sé nel proprio cammino i fantasmi delle proprie paure, è avanzare nel terrore. Che vuole dire avanzare nel conosciuto, certamente non nell’ignoto. Una mente umana popolata di terrori potenziali di quel genere, vive in uno stato i stress permanente, ed è della condizione umana . Non ha niente a che vedere con una relazione con l’Ignoto, ma al contrario con il conosciuto.
La relazione vera con l’Ignoto precede l’irruzione del
pensiero. E’ là che c’è il Risveglio. Ma certamente
non è con la vigilanza ordinaria. Il pensiero, nella vigilanza quotidiana,
reifica la dualità soggetto/oggetto e in quel
risveglio la coscienza è impaurita. Che lo vogliamo o no, bisogna ammettere che
ciò che chiamiamo paura, nel nostro stato sedicente
vigile, si definisce con un oggetto, ciò che fa paura , in correlazione con un
soggetto, colui che ha paura. L’oggetto non esiste che attraverso il soggetto,
nella struttura della dualità soggetto/oggetto. Ogni paura viene dalla dualità.
La domanda: di cosa ho paura e la domanda: chi ha paura non
sono dissociabili. L’oggetto della paura può prendere ogni sorta di
forme. Dall’altra parte, chi è che ha paura? Io, l’ego, quel me, sempre afferma
e insiste nella sua credenza, io ho paura di questo e di quello, essendo quelli
gli oggetti delle nostre paure. A partire dal momento in cui il pensiero ha
generato la paura, questa si concretizza nel corpo,
ciò che fa subito credere che è molto reale. Il pensiero rapidamente somatizza
l’emozione. Poiché questo stato è doloroso, ho
desiderio di fuggire, perché mi ci vuole una scappatoia alla mia paura, che ho
creato io. Allora vado al cinema, per dimenticarla, e per la mia paura di
incontrarla e di confessarle il mio amore. Mi metto davanti al televisore per
abbruttirmi e dimenticare la paura che mi attanaglia e che vorrei cacciare. In queste condizioni il bisogno di bere, di fumare, di drogarsi, di
andare in un bordello o di andare in guerra. Si può anche tentare di
sopprimere con violenza ciò che si considera la causa della paura, che è
un’altra scappatoia. Violenza contro l’altro. Violenza contro di sé. Oggetti visti come cause delle mie paure. Bisognerebbe fare
l’inventario dei nostri delitti di fuga davanti a noi stessi per trovare la
sorgente delle nostre paure. Che cosa sono perciò
quegli assalti d'ansia che invadono la nostra epoca, se non la paura installata
durevolmente?
Lavorare sulla
paura
Quando cominciamo a comprendere l’importanza del problema, allora
viene l’urgenza di doverlo risolvere. Per questo è importante essere molto precisi.
Infatti ci sono due forme di paura distinte:
1)
la paura vitale, che è un’emozione forte che si ha davanti ad
un pericolo. In quel caso, sono provocato da una causa molto reale nella mia
vita. E’ la paura che fa sì che eviti di sciare ai
margini di un crepaccio in montagna; la
paura davanti al cane da guardia che mi
aggredisce; la paura che mi fa spingere a lato della strada per non essere
travolto da un’auto. Questa paura non è specificamente umana. E’
un’emozione che si basa su un meccanismo istintivo. E’ la paura che sente ogni
animale in presenza di un predatore, quella del lupo
che reagisce drizzando il pelo davanti a un altro membro del gruppo che gli
mostra i denti. La paura vitale ha il suo posto nell’economia della vita,
permette la sopravvivenza come individuo minacciato nella sua integrità fisica.
Questa paura protegge.
2)
La paura psicologica invece esce da una
rappresentazione che genera una tensione che ci fa indietreggiare davanti a una possibilità di
cui ci rappresentiamo la venuta come pericolosa e inquietante. E’ la paura del
bambino che crede che ci sia un fantasma nell’armadio. La paura psicologica non
viene dall’identificazione di un danno reale, ma dall’anticipazione di un danno possibile. In questa forma la
paura è una minaccia potenziale la cui ombra è come un’ossessione che crea
un’angoscia. Nel cuore umano ci sono molte paure di quel
genere: paure legate alla sicurezza psicologica, paura di vedere il compagno allontanarsi,
paura della solitudine, paura della morte di una persona cara, ecc. Ci sono
anche paure sociali: paura di trovarsi sulla strada senza lavoro, paura di perdere una situazione vantaggiosa,
di essere umiliato, ingannato, di non essere riconosciuto secondo un giusto
valore, di non essere all’altezza di un determinato compito. Per una
specie di contagio, la paura dà
allora un senso di angoscia
permanente in cui vivono molti, che non trovano nessun posto sicuro dove
rifugiarsi.. E molto spesso, in fondo a tutte le paure, la paura della morte.
La relazione tra la paura psicologica e la paura vitale non
è dell’ordine della necessità. Ma crediamo che lo sia.
E quella credenza basta per suscitare una reazione
vitale come se ci fosse effettivamente un pericolo reale e imminente. E così la paura psicologica è autogenerata. La paura vitale,
lei, non costituisce un problema in sé, se sta al posto giusto. La paura
psicologica invece pone effettivamente il terreno su cui proliferano dei
problemi.
Possiamo entrare in contatto
con la paura e osservarla attivamente? Questo non vuol dire imparare a
resisterle, o a come evitarla e sfuggirla. No.
Conoscerla. E’ quello che propone Krishnamurti nel “Le
vol de l’aigle”. Dapprima, se le paure sono davvero numerose, “paura della morte, del buio, di perdere il
proprio stato, di marito o di moglie, dell’insicurezza, la paura di non
realizzarsi, di non essere amato, della solitudine, di non farcela”, la domanda
è soprattutto: “Non sono tutte l’espressione di una paura centrale?”. Non si
tratta solo di considerare un esempio in particolare, di fare un catalogo di
tutte le paure, ma di portare l’attenzione sulla natura della paura.
Noi vediamo bene ciò che produce la paura e tutta
l’importanza che ha per la mente essere in uno stato privo di paura, “perché
con essa c’è
oscurità e la mente si indebolisce, poi cerca diverse evasioni, differenti
stimoli, delle distrazioni, sia nella chiesa, allo stadio o alla radio. Una
mente angosciata è incapace di chiarezza che ignora il senso della parola
amore. Può conoscere il piacere, ma non ciò che significa amare. “La paura è
distruttrice e indebolisce la mente” (Krishnamurti).
Una mente tuffata nella paura è come accecata. E’ spinta
verso le scappatoie, nella ricerca temporale di una sicurezza nel futuro ed è
incapace di restare nel presente. Resta prigioniera del tempo psicologico. La
paura psicologica deriva dal fatto che la mente si appoggia su riferimenti del
passato e proietta la paura della ripetizione di una sofferenza. Se ho sofferto nel passato “e il dolore era atroce, non
voglio più ripeterlo e ha paura che ritorni. Cosa è
successo? Spesso c’è quella sofferenza e il pensiero dice: “ - Che non ritorni!
Fai attenzione.- Pensando a lui, si teme
la ripetizione ; è il pensiero che attira la paura”. (
K.)
E
nasce l’ansia, che essa stessa è la paura installata in modo durevole come un
secondo modo di vivere. E non solo questo, ma bisogna
anche osservare che ci sono in noi delle
paure coscienti, ma anche quelle inconsce, che restano nascoste nelle pieghe
più profonde della psiche.
Davanti al problema, l’aiuto più spesso usato è quello della
psicanalisi. Ci si dice che dobbiamo passare ore e ore sul divano dello
psicanalista, per analizzare le cause della paura ritornando sull’esperienza
passata, sui traumi dell’infanzia, il complesso di Edipo,
ecc. Ma il problema è che l’analisi prende tanto tempo e niente assicura che si
possa risolvere il problema con il tempo. C’è urgenza e l’urgenza richiede
un’azione immediata. Il “processo dell’analisi fa intervenire il tempo; in
altre parole , per analizzarmi, ci vorranno giorni o
anni. Alla fine di questi anni, io avrò ancora paura. Perciò
non è l’analisi che conviene. Quando la casa brucia, non vi sedete per
analizzare o andare da un professionista a dirgli: “- ditemi tutto ciò che devo
sapere su di me - , ma vi occorre agire”.( K.)
Se
vogliamo affrontare il problema della paura in modo radicale, dobbiamo
escludere l’analisi. “L’analisi è una forma d’evasione, di pigrizia, di inefficacia. E’ forse
un atteggiamento da nevrotico, per andare da uno psicanalista, ma anche in quel caso
non troverà una soluzione alla sua malattia” (K.).
E
se non cercassimo più nessuna soluzione, nessuna scappatoia? Una mente che
rifiuta improvvisamente l’analisi si trova ricondotta
direttamente alla paura e in uno stato estremamente acuto.
“Così mi trovo davanti quel problema, che una mente acuta,
che ha rifiutato ogni forma di analisi, si propone di
risolvere completamente e immediatamente. Di conseguenza, nessun
ideale, nessuna questione di un avvenire dove ci si dice: voglio
liberarmene. Così ci si trova ormai in uno stato di attenzione
completa. Non si evade più, non si ricorre al tempo come mezzo per risolvere il problema, non si
fa l’analisi.
fa
nessuna resistenza.”( K. ).
Ora, è proprio quando la mente non fa resistenza che è capace
di comprendere, di vedere, di osservare la paura ed è soltanto nel “vedere” che
si produce una dissoluzione della paura. Sfortunatamente abbiamo continuato ad
avere un vecchio pregiudizio, quello di credere
che non ci si può liberare dalla formazione di una abitudine che
sviluppando un’abitudine contraria, e questo col tempo. Crediamo che è
possibile combattere un’abitudine della paura coltivando un’abitudine di fiducia. L’una e l’altra sono solo formazioni mentali. È essenziale osservare
che ogni forma di resistenza favorisce
nuovi conflitti e che l’azione graduale
non distrugge l’abitudine della paura.
“Per essere liberi dalla paura non
c’è bisogno di una resistenza che agisce in un certo lasso di tempo, ma ci
vuole un’energia capace di affrontarla e distruggerla in un istante; questa è
l’attenzione; essa è l’essenza stessa dell’energia. Dare la propria attenzione
significa consacrare tutta la propria intelligenza, il proprio cuore, la
propria energia psichica e con quella energia prendere
coscienza, guardare in faccia quell’abitudine particolare. Vi accorgerete
allora che non ha più presa, scompare immediatamente”.
E’ indispensabile comprendere che non possiamo lottare con
le armi del mentale contro la paura perché non serve a niente. Il mentale è
nella paura, chiuso in un cerchio da cui bisognerebbe uscire: il mentale
elabora un’immagine di un oggetto causa della paura; una volta elaborato
quell’oggetto, genera meccanicamente una reazione, che è legata in modo
condizionato all’immagine dell’oggetto terrificante. Una volta prodotta la
reazione, essa si autoperpetua da sola
come immagine ecc. E’ un circolo vizioso che impedisce
che possa avere una soluzione intellettuale alla paura soddisfacente. La sola
maniera di uscirne è vedere in modo crudo e lucido l’impotenza del mentale a
risolvere quello che lui stesso ha
generato. Vedere fa apparire che non c’è soluzione nella fuga, nella lotta,
nell’inibizione, cioè in nessuna reazione, perché ogni
soluzione proposta è una fuga. Liberarsi dalla soluzione è liberarsi dalla
tendenza a differire sempre e liberare una nuova energia che rende disponibile
quella che era succhiata dalla ricerca di una soluzione. Ciò che è veramente
presente è dunque la paura e l’intensità dell’energia per incontrarla. In una
vigilanza passiva, una immobilità senza fuga. Non c’è
soluzione, non ci sarà mai rimedio, perché la paura non ha fondamento. Come
potrebbe avere un qualsiasi rimedio ciò che non ha fondamento? La paura non ha
origine fuori dal pensiero e, vista nel pensiero, non
ha realtà. Dunque non si può conoscere dagli effetti, molto reali, che essa
produce.. Questi sono ben percepibili dal corpo di
carne, nella postura, nei tratti del viso, nelle emozioni e lì è possibile un
lavoro, che consisterà nel mettere a nudo ciò che è nascosto.
Ogni lavoro serio sulla paura è liberatore e, finchè non
conosciamo quell’affrancamento, dovrà essere perseguito. L’accesso
alla presenza passa attraverso quella porta. La paura può operare un
passaggio iniziatico a una forma di coscienza più
elevata, a condizione che sia osservata e compresa in profondità. Essa mette a nudo i nostri condizionamenti, quello che è chiuso,
nascosto in noi. La comprensione della paura come struttura fondamentale
dell’esistenza umana non è dunque una questione secondaria, ma è fondamentale e
non può essere evitata. Allora bisogna prenderne coscienza, piuttosto che
cercare di eluderla, perché in questo modo non faremmo che incoraggiare un
processo nato dall’illusione.