3ème Millénarie n. 77 – Traduzione della Dr.ssa
Luciana Scalabrini
3ème: Vorremmo affrontare con lei il tema della violenza, così spesso toccato, e della pace interiore, la cui via resta sempre da scoprire.
J.C.: Non sono sicuro che si possa opporre violenza a pace interi ore.
E’ piuttosto la non-violenza che è l’opposto della violenza; e Gandhi ne ha dato prova facendo della non-violenza un’arma politica. Ma credo che la violenza possa essere un atto legittimo. In ogni caso fa parte della nostra costituzione e non sono responsabile della violenza così come di altre forme costituenti la mia realtà. Sono, ben inteso, responsabile dei miei comportamenti. Ma se mi si fa la domanda: “Ho il diritto di essere violento?”, la risposta può essere “si”! Per esempio per mettere fine a una violenza che mi minaccia o minaccia un’altra persona. Non ho il diritto, per salvare la mia pelle o una persona in pericolo, di essere violento?
3ème: Per Lei non c’è dunque antinomia tra violenza e pace interiore?
J.C.: No. Forse perché ho praticato e insegno l’aikido e il karate da più di 25 anni? L’azione investita nella pratica di un’arte marziale è violenta, ma può essere considerata come una via di trasformazione. Naturalmente in questo caso non si tratta di una violenza che sorge dalla collera o da un’altra passione.
3ème: Lei stabilisce un criterio che le permette di distinguere l’aggressività dalla violenza…
J.C.: Si. Leggevo ultimamente un articolo dove era citato Aristotele: “E’ giusto adirarsi quando è necessario, come è necessario e contro chi è necessario” Come è necessario! Questa raccomandazione mi tocca, perché nell’aikido l’uso della forza è fatta da un uomo che testimonia, con il suo modo d’essere, che il suo spirito non è inquieto. Un’arte marziale, degna di questo nome, è un cammino che porta colui che si esercita alla pace interiore.
3ème: Potrebbe tornare sulla distinzione tra violenza e aggressività?
J.C.: L’aggressivo usa la violenza senza dominarla; è dominato dalla sua passione e dalla sua azione violenta. Il maestro in una disciplina di combattimento è colui che domina la sua azione. Una persona aggressiva è prigioniera della violenza…
3ème: In certe tradizioni, si potrebbe dire identificato, cioè senza pace e senza libertà interiore!
J.C. Esattamente; per l’aggressivo, l’azione violenta non è usata con lucidità. Accade che un violento si prenda la testa e si domandi: “cosa ho fatto!”. Questo dimostra che non l’ha fatto liberamente: una parte di lui ancora incosciente l’ha trascinato a commettere quell’atto. Lontano dall’essere una scusa, questa constatazione è un invito a fare un lavoro su di sé.
3ème: Alla fine, con la sua esperienza, lei ha incontrato quel potenziale di violenza in una prospettiva di “saggezza esercitata”, per riprendere il titolo del suo ultimo lavoro.
J.C:: Si. La pratica meditativa consiste nel far fronte a quello che si è realmente nel momento. Ho il ricordo del sesshin (quell’esercizio che consiste nel meditare 8 – 10 ore al giorno per 3, 5 o 7 giorni) nel corso dei quali lo specchio che è l’attenzione non mi permette più di restare identificato a quello che credevo d’essere! A fine giornata avevo tanto male alle gambe che avevo un solo desiderio: prendere un bastone (il kyosaku) che era vicino al maestro Yuho Seki Roshi, che conduceva quel sesshin , e spaccargli la testa. Quello che mi ha impedito quell’atto violento è molto semplicemente che avevo troppo male alle gambe per alzarmi e passare all’azione! (risa). Ho dovuto certo riconoscere come quella violenza, che proiettavo così facilmente sugli altri, fa parte di me stesso.
L’esercizio, qui la pratica meditativa, non elimina questa potenzialità insita in ogni essere umano.
L’osservazione attenta delle nostre passioni sradica le reazioni violente che esse generano.
La persona che si esercita passa da un modo di funzionare che è di reazione a un modo di funzionare che è azione.
Per tanto tempo rischiamo di fare il pendolo tra la rivolta e la rassegnazione. Fino al giorno in cui ci si risveglia a quello stato d’essere senza contrario: la pace interiore.
3ème: In effetti, in un tempo lungo, la pratica meditativa provoca dei dolori.
J.C.: Si, può diventare scomoda.
3ème: E questa scomodità non sono accettate…
J.C.; Certo, quando un’insoddisfazione turba il “me”, la reazione è sempre la stessa: rifiuto ciò che è (per esempio la scomodità) e/o desidero ciò che non è (in questo caso la comodità).
E’ sulla via, che conduce alla conoscenza di sé, il lavoro decisivo: osservare la potenza del “me-io-voglio” e del “me-io-non voglio”.
Non è vero che ogni giorno capita quello che non vorrei che capitasse e non capita quello che vorrei?
Giorno dopo giorno, la pratica mi ha permesso di vedere che la causa dei problemi che dovevo affrontare, e quella delle due maggiori reazioni che sono il rifiuto e il desiderio, non sono quell’avvenimento o quell’oggetto, ma il mio modo di vedere quell’avvenimento e quell’oggetto.
Per molto tempo ho creduto che avrei potuto a forza d’esercizio, costruire uno stato d’essere in pace. Questa costruzione è solo una fragile facciata. Non si può costruire la pace dell’anima. Si può scoprirla. La via che conduce alla pace interiore è una via di scoperta di quello che siamo già nella profondità di noi stessi: la nostra essenza, la nostra natura.
3ème: Si, questo percorso di costruzione di uno stato tranquillo non è che una fuga.
J.C.: Esattamente. E’ una strada dell’ego, mentre in tutte le tradizioni di saggezza, si dice che è il lasciar-andare dell’ego che conduce alla pace del cuore e alla pace dello spirito.
3ème: Però, senza farne un problema, vedo che non sono capace di lasciar-andare… Non posso che imparare a vedere le mie resistenze…
J.C: E’ una tappa importante. Osservare le proprie resistenze è già lasciar-andare. Le persone che leggono gli scritti di Graf Dürkheim ad ogni capitolo si imbattono nell’espressione “lasciar-andare”. Li invito, per comprendere quello che vuole dire, a depennare quelle due parole e a scrivere in margine “accettare ciò che è”.
Lasciar andare è accettare ciò che è perché ciò che è… è. Piove! Accetto che piova. Per una sola ragione: bisogna che piova! Ed esco, sorridendo, vestito con l’impermeabile e provvisto d’un ombrello. Ma, certo, non si può sempre attorniarsi di ciò che sentiamo inaccettabile. Il dolore che mi è toccato due anni fa era inaccettabile. Il lavoro di lutto che ho poi cominciato si riassume in una sola parola: accettare! Quello che mi ha aiutato in quell’anno di dolore cocente, sono stati tutti gli anni di pratica sulla Via della Tecnica. Nella pratica dello Zen si esercita il lasciar-andare cominciando dalle piccole cose, accettando le piccole insoddisfazioni che sorgono nel quotidiano. La “turba dei piccoli mali” diceva Montaigne. E’ così che, nella pratica meditativa, quando una gamba si addormenta o comincia a far male, l’espressone lasciar-andare non consiste nel trovare un mezzo per sopprimere il dolore. La pratica del lasciar-andare consiste nell’osservare quel disturbo e le reazioni fisiche, affettive e mentali che fa nascere. E’ il “conosci te stesso” a cui i saggi ci invitano. Bisognerebbe aggiungere “conosci te stesso nel momento”.
3ème: Ma quella pratica meditativa richiede una grande determinazione.
J.C. Si, sicuramente, occorre determinazione e perseveranza. Ma anche chi vuole suonare o danzare deve avere quelle qualità.
L’arte di vivere ha le stesse esigenze di quella pianistica o della danza. Occorre esercitarsi!
3ème: Quella determinazione si applica allora con quel potenziale di violenza che è in noi?
J.C.: Si. Si può forse dire che per vivere meglio, bisogna farsi violenza? E’ un buon modo di utilizzare il nostro potenziale di violenza. Avete ragione di parlare di determinazione. Non basta avere volontà. La volontà muove il mentale, la determinazione il corpo.
3ème: Nella vita ordinaria, si può constatare che si è molto poco coscienti del corpo e di conseguenza di sé.
J.C.: E’ vero che ancora oggi in Occidente il corpo è considerato oggetto di funzionamento. E così molti sono quelli che percepiscono che l’uomo è il proprio corpo. Nel suo cammino di saggezza Dürkheim ci invita alla conoscenza del corpo che si “è”.
3ème: In meditazione mi capita di percepire fino a che punto la pace interiore emani dal corpo.
J.C.: Si, perché il corpo è l’anima. Spinosa, meno di un secolo dopo la morte di Cartesio, scrive: “Se noi opponiamo quello che si chiama corpo a quello che si chiama spirito è perché non abbiamo una sufficiente conoscenza del corpo”. Spinosa non attira la nostra attenzione sul corpo che l’uomo ha, che è un oggetto di studio per le scienze. Parla del corpo che l’uomo è . Avete ragione, la pace interiore è un’esperienza fisica.
3ème: Finché il silenzio emana dalle ossa…
J.C.: Esattamente. In Giappone quella che si chiama la cultura del silenzio o della tranquillità è un esercizio fisico. Sono stato colpito dal fatto che in Giappone, quando una persona incontra un uomo o una donna che, per il suo modo di essere, mostra un certo grado di maturità o di saggezza, ci si permette di domandargli: “Qual è il vostro esercizio?”
3ème: L’esercizio spirituale, fatto con regolarità, deve integrarsi con la vita quotidiana.
J.C: Naturalmente! L’esercizio ha per scopo d’essere in un altro modo d’essere nel quotidiano.
3ème: La pratica diventa più dura quando si tratta di ritrovare uno stato di pace interiore scomparso…
J.C.: Si e no! Perché sarebbe vano e illusorio sperare di giungere a uno stato di pace permanente. Le persone che accompagno sulla Via della Tecnica mi dicono a volte: “Questo non dura…”! Volere che duri sarebbe negare la legge dell’impermanenza. Lo fa l’uomo occidentale. La parola “impermanenza” non si trova nel dizionario. Uno dei miei allievi ha chiesto perché ai membri dell’Accademia. Risposta: “perché la parola impermanenza non è d’uso corrente!” Per dare una risposta così bisogna veramente credersi… immortali!
Che cosa conta sulla via della pace interiore? Imparare a vivere il momento presente. Per la ragione che l’atto di vivere è il mio vissuto nel momento.
Non vivo ieri, il passato è passato, il futuro deve venire. E’ soprattutto la corsa, nel pensiero, a un passato che non c’è più o la corsa, nel pensiero, in un futuro che non c’è ancora che crea l’ostacolo alla pace del cuore.
Non dico che bisogna dimenticare il passato e ignorare l’avvenire. Dico che è peccato dimenticare… il presente.
Meditare, è imparare a vivere. A vivere ora. Qual è il senso del momento presente? E’ quello che gli do’. E questo fa dire ai saggi di ogni epoca e di ogni tradizione: “ Non c’è felicità che nel presente”: Quando sente questa indicazione, l’uomo comune si pone la domanda: Cos’è la felicità?
Quando sente questa indicazione, l’uomo in cammino si pone la domanda: come arrivare a vivere pienamente il momento presente?
E’ questa la strada che conduce alla pace interiore. Mi sembra che sia lo sforzo da fare. Epitteto, nel primo secolo della nostra era, afferma che: “il maggior bene a cui l’uomo possa accedere nella sua vita è l’atarassia, la pace dell’anima”. E aggiunge: “per giungere a questo bene l’uomo deve esercitarsi”. Un filosofo attuale, Pierre Hadot dice come manchi oggi, accanto a un discorso filosofico, l’esercizio filosofico. E’ quello che ho trovato in Dürkheim, che era dottore in filosofia e in psicologia. Quello che ha insegnato, nel seconda metà della sua vita, in un piccolo villaggio della Foresta Nera: l’esercizio filosofico, l’esercizio spirituale!
3ème: E l’esercizio filosofico non ha valore se non è radicato nella persona intera che è corpo.
J.C.: Andrè Comte-Sponville comincia la prefazione che ha scritta per il mio ultimo lavoro dicendo: “I filosofi si sono molto interrogati in occidente, sull’esistenza dell’anima. Fino a dimenticare, certi di loro, che avevano un corpo, o piuttosto, per parlare come Nietzsche o Dürkheim, che erano un corpo.
3ème: Non possiamo che augurarci una rinascita della filosofia in Occidente.
J.C.: Vedo che i libri di filosofia hanno oggi un certo successo in libreria. Più delle opere che, nel movimento New Age, invitano allo sviluppo personale. Ritorno allo Old Age? Ritorno ai cinque secoli di saggezza dell’ellenismo? In ogni caso, rifiuto delle illusioni.
3ème: Ritorniamo a un bisogno di rigore.
J.C: Assolutamente. Le persone che sono “alla ricerca” dicono il loro bisogno di verità. Presso Dürkheim, nel 1967, ho messo i piedi in una scuola di verità. Sarò riconoscente fino all’ultimo giorno della mia vita per aver incontrato quell’uomo, che mi ha tolto le illusioni.
3ème: E questa via fa parte della pace interiore?
J.C. Si, perché quello sforzo su di sé, che porta a un altro modo d’essere, porta quello che i buddisti chiamano il risveglio alla nostra vera natura. Che Dürkheim chiama il nostro essere essenziale. Che io preferisco chiamare la nostra essenza. Ciò che apprezzo nella Via della Tecnica, è che vi mette davanti al semplice e al vero. Il primo esercizio per il principiante consiste nell’osservare il respiro. L’atto di respirare è essere in atto, è al di là o al di qua del me comune. La piena attenzione al respiro può arrivare all’esperienza della fiducia e della serenità. Perché? Perché non troverò mai la pace interiore in ciò che faccio. La radice della pace interiore è ciò che non si può fare, sempre presente, in tutto ciò che faccio.