3ème Millénaire n. 79 – Traduzione della
Dr.ssa Luciana Scalabrini
3M: Nel colloquio di Cordova, vi augurate che emerga la necessità urgente di una
nuova epistemologia. Dov’è oggi questo progetto che
vorreste si compisse? Che cammino avete fatto poi?
M.C. Farei
subito una prima precisazione, dicendo
che non ho affatto scelto quel percorso, ma che lui ha scelto me.
Noi conduciamo la nostra vita meno di quanto la cultura ci ha insegnato a
pensare.
E’ vero che il colloquio di Cordova rimane l’elemento fondamentale, ma da 20 anni cerco
di mettere in atto questa nuova epistemologia. Gran parte del mio lavoro
consiste nel tornare sulla rottura che ebbe luogo nella Cordova
nel dodicesimo e tredicesimo secolo, al tempo de Averroè,
quando la ragione e la mistica si sono separate una dall’altra. Ciò che dunque
cerco di fare, nello spirito della nostra antica tradizione occidentale, nella tradizione neoplatonica, è mostrare che ragione e mistica non
si escludono l’una con l’altra. Al grado massimo del
pensiero, basta citare Plotino, per vedere che siamo
sia mistici che razionali. E’ una meta importante, nella vita, trovare
l’unità dell’essere, l’unità del mondo, o più lontano l’Unicità dell’essere e
ancora al di là, tuffarsi nell’abisso ancora prima che ci sia una qualsiasi
unità, cioè ai limiti dell’Inconoscibile che noi non
possiamo che tentare di sperimentare
senza neanche poterne parlare.
3M. Come vi ponete come occidentale che aspira
all’Inconoscibile? Quali sono le vostre fonti spirituali e culturali in
occidente?
M.C. Pur
essendo molto attirato dal pensiero dell’India, assumo l’eredità della mia
tradizione occidentale, però con beneficio d’inventario, in seno alla mia
propria cultura. Così quello che mi parla è il platonismo, il neoplatonismo e
le loro conseguenze nella teologia cristiana, che sono
la teologia negativa e la teologia apofatica, fino alla grande teosofia tedesca
con Jacob Boehme, la grande filosofia tedesca romantica con Schelling fino alla
psicologia moderna generalmente mal compresa di C. G. Jung. Questo è il mio
modo d’assumere la mia eredità occidentale, in una linea di pensiero o scienza;
razionalità e mistica sono alla pari, permettendomi ugualmente di intrecciare
il dialogo con altre culture, come la Kabbala ebraica, la Gnosi islamica e
evidentemente i grandi testi delle Upanishad.
3M. La maggioranza
delle spiritualità di questo inizio del ventunesimo secolo
allontanano l’incontro della fede e della ragione, distaccandosi, solo e
semplicemente, da quest’ultima. Voi insistete sull’importanza di
quest’incontro. Perché l’uso della ragione vi sembra
così fondamentale?
M. C. L’uso
della ragione è un potere discriminante e si dimentica troppo facilmente che un
pensatore come Shankara fu l’equivalente indiano d’un
Hegel o di un Kant. Il
canone pali buddista ha un trattato di logica
difficile da eguagliare in occidente. Lì l’uso della ragione è
straordinariamente forte. Non attraverso un Oriente in paccottiglia che cerca
di sbarazzarsi della ragione.
Tuttavia quello che mi interessa della ragione è
di spingerla fino alla fine, fino al momento in cui incontra i suoi limiti;
perché c’è un al di là delle sue frontiere che è dell’ordine dell’esperienza
intima. Bisogna distinguere l’attitudine irrazionale, che rifiuta la ragione e
apre la porta a tutti i deliri, e il fatto d’essere “transrazionale”.
Fondamentalmente ai
miei occhi la ragione è necessaria senza essere sufficiente; l’uso della
ragione è una tappa in cui la ragione chiede di essere superata attraverso i suoi propri mezzi interiori.
Nel “Trattato della via di mezzo”, Nagarjuna
mostra per esempio che, adottando una certa ipotesi, le conseguenze sono insostenibili, così
come adottando l’ipotesi contraria. Si crede generalmente di comprendere,
dicendo che con del bianco e del nero si ottiene del grigio, mentre non si
tratta affatto di questo; con un uso rigoroso delle sue capacità intellettuali Nagarjuna tenta di farci rinunciare ad ogni questione
metafisica insolubile.
Quando S. Agostino parla dell’incendio
della ragione, testimonia quel momento in cui essa è obbligata a rinunciare a
se stessa; ma non rinuncia a se stessa che nell’esercizio sovrano di ciò che
essa è!
Quando proviamo a riunificare il campo della conoscenza e quello della esperienza, ci sospettano di irrazionalismo, e questo
è un modo per sbarazzarsi del problema. Tengo a precisare fermamente che non si
tratta di irrazionalismo, ma al contrario di “transrazionale”, che implica che abbiamo attraversato la
ragione e che ce ne siamo serviti fino al momento in cui realizziamo che non è
attraverso il pensiero che abbiamo una visione “definitiva” delle cose.
3M. Questo è tornare alla sorgente
stessa della ragione…
M.C. Certo.
In qualche modo la ragione si chiude su se stessa. A meno che non giri in tondo
indefinitamente! In ogni caso non possiamo sfuggirvi che attraverso l’alto. La
mia formazione in psicanalisi mi fa dire che è nell’ordine della progressione,
non della regressione. Mi sembra importante precisare questo punto perché sento
spesso presentare la nozione di ritorno alle origini in termini di regressione,
di “grande
nostalgia”, di ritorno al ventre della madre; è al contrario qualcosa che si
conquista: un ritorno dove l’origine e la fine si ritrovano…
3M. …Con una trasformazione dei
nostri mezzi di conoscenza?
M.C. Assolutamente!
E non solo dei nostri mezzi cognitivi, ma anche di noi stessi.
Perché non ci serviamo impunemente di questo o quel mezzo, ma c’è l’accordo che
abbiamo profondamente con essi. Andare fino al di là della ragione implica principalmente tutto un
lavoro interiore; non si tratta di un puro gioco concettuale.
3M. Il vostro cammino è quello di una passione che si scopre…
M.C. Si, quello che chiamo la “ragione
infiammata” . Quando vi dico che questo cammino mi ha
scelto, voglio dire che quella passione mi ha sempre abitato, passando
evidentemente per stadi in cui si approfondisce e si sviluppa…
Questo può sembrare contraddittorio, ma credo che, profondamente,
scegliamo il nostro destino. Pertanto, per essere onesto, bisogna ben dire che
passiamo anni della nostra vita a cercare come girargli attorno per non
rispondergli; fino al momento in cui scegliamo senza scelta, di dire infine si a quel destino. Ed allora uno è libero.
Quell’accettazione si opera attraverso prove e un lavoro su se stessi,
contrariamente al discorso idilliaco dello “sviluppo personale”, per il quale
la vita deve diventare sempre più confortevole.
3M. Ma noi siamo frammentati, e un lavoro
d’integrazione non è prima di tutto necessario?
M.C. Siamo
un corpo disperso che se deve riunificare. Ciò che è difficile è vedere che
quella riunificazione non può effettuarsi che in
rapporto a un vuoto centrale; perché alla fine è quel vuoto o quel niente che è
il più ricco! Noi abbiamo sicuramente l’idea che il centro che dobbiamo trovare
è pieno, che abbiamo un asse attorno al quale possiamo
girare… Solo, ecco, il perno è mancante…e fortunatamente lo è! Credo certamente
che l’Atman
esista, ma non è un’immagine mentale di un asse che ci
trapassa il cuore, che mi porta a pensare pieno e vuoto al tempo stesso.
3M. Quello è un meraviglioso atto di fede!
M.C. Si, se si riconduce la fede alla sua etimologia, la “fides”, da dove viene la fiducia. La credenza, il credere, porta alla credulità…
3M. E in
Platone al mondo dell’opinione.
M.C. Dio
ci liberi! Ma noi abbiamo sempre tendenza a ricadere
nelle opinioni comuni e nelle credenze, quando la strada diventa troppo
pesante.
Però, non si scherza con la passione, a meno che non si ricada in quella che chiamerei una “nevrosi spirituale”;
perché penso davvero che ci siano nevrosi di quel tipo, che si basano sul
rifiuto dello spirituale; e su questo punto sono molto junghiano. Tanto che penso che una vera psicologia supera se stessa per sfociare
nella spiritualità o per essere un’apertura a ciò che è di tipo spirituale.
Secondo Jung, il vero soggetto è il Sé. Dovendo il me essere
superato, non essendo che uno strumento della vita sociale e lo specchio
incarnato del Sé.
3M. Come giustificare il lavoro
prevalente della ragione?
M.C. Ci
sono molte tappe. A tutta prima quella del sapere minimo:
conoscere i rudimenti dei testi spirituali. Non bisogna dimenticare che
il sapere e il sapore hanno la stessa origine. Così, il sapere è il gusto di qualcosa
d’altro; e il vero sapere è ciò che va oltre se stesso. Ma
allo stesso tempo, non si può nemmeno domandare a qualcuno di avere un
discernimento spirituale, quando è alla ricerca della spiritualità, perché
quello implicherebbe che già avesse gli strumenti del luogo verso cui
va…
Il superamento della ragione non è la sua distruzione.
Molte persone hanno adottato il termine indiano di “mentale” senza vedere
esattamente ciò che significava nella sua filosofia d’origine. C’è un
fortissimo processo di regressione quando si dice “i
danni del mentale” per esaltare l’autenticità dell’esperienza che viene
dall’emozione bruta e immediata. E’, da una parte confondere gravemente
l’emozione e l’estasi, e , dall’altra ricondurre al
mentale tutto quello che è di tipo razionale e del discorso argomentato e
strutturato. E’ approdare all’odio del pensiero. Non ho mai considerato le Upanishad una distruzione del pensiero, ma come
il suo superamento secondo una logica a quattro termini, o per il fatto che la
figura dell’ossimoro (l’oscura chiarezza, ecc.) vi sia utilizzata
frequentemente; ma tutto questo è precisamente la loro ragione d’essere! Le Upanishad non
provengono dal delirio incoerente di una persona che ha rinunciato alla
ragione!
In Shankara ci sono dimostrazioni metafisiche
splendide. Ed è lì che la ragione rimane ai miei occhi
il primo gradino della scala verso la mistica, quello che non possiamo saltare
senza cadere.
Per molti sembra
faticoso pensare o ragionare; è non
riconoscere la gioia che ne possiamo trarre; gioia più grande quando arriviamo
a capo del nostro pensiero, là dove bisogna passare a tutt’altra
cosa! Quando parliamo di ragione e di fede, o di scienza e di mistica, si
tratta d’una congiunzione di opposti che presuppone
una differenziazione preliminare
3M. Per fare questa differenziazione, non bisogna che la ragione sia
auto-distinta o compresa da sé, cosciente di sé?
M.C. Si, bisogna che il pensiero si abitui da solo, perché è allora che
diventa cosciente di non essere sovrano.
Così, la scienza occidentale non si rende conto del mondo
nella sua totalità, ma unicamente del mondo materiale o del mondo sensibile nel
quale viviamo, ciò che non esclude alcun altro modo di realtà. D’altra parte, ciò che mi colpisce, è vedere a che punto il modo di pensare,
che è diventato dominante da noi, sia orizzontale,
come riduca la realtà al solo modo che ci è immediatamente accessibile.
Ricordo il dialogo straordinario che avvenne tra Jung e Schrodinger,
nel 1946. Jung disse al fisico: “Ma allora l’anima, l’avete messa da parte?”. E
Schrodinger rispose: “Certo, perché questo ci ha permesso di fondare la
scienza”. Ma Schrodinger, che studiava i Veda, era molto cosciente di quella
situazione; sapeva che, escludendo l’anima, avremmo finito per credere che non
esistesse. Ora, mettendola da parte tra parentesi, non possiamo evidentemente
trovarla sotto lo scalpello. La scienza è estremamente
potente al livello che è il suo, ma che non è il solo legittimo.
I fisici o i cosmologi con cui lavoro, sono i
primi a constatare l’impossibilità, per la scienza, di rispondere a certe
questioni fondamentali. E’ un bello scacco della ragione!
Mentre la scienza aveva pensato di spiegare
tutto congedando la metafisica, essa scopre che non si può farne a meno.
A mio parere, c’è una certa similitudine tra l’approccio di molte
cosmologie contemporanee, per cui l’universo sarebbe
nato da una transizione dalla fase del vuoto, e la teologia mistica di Denys l’Areopagita. Ciò che mi interessa non è però di concludere frettolosamente per
un’identità, Ma di constatare che le
strutture di pensiero sono le stesse. E ciò che mi
pare importante, è che la scienza contemporanea ricade sulla nozione
d’inconoscibile, nel momento in cui è obbligata ad arrendersi.
3M. Che vuol dire che per arrivare a una “ nuova
scienza”, bisogna che gli scienziati, il cui mezzo della ragione è spinto al
suo culmine, possano infine rivolgersi alla mistica…
M.C. Ciò che spesso consiglio loro, è di fare
almeno della metafisica; e quando li
rimando a Plotino o a Pseudo-Denys,
è la teologia mistica che suggerisco. Con le domande che essi si fanno,
constato regolarmente che quei cosmologi sono dei profondi metafisici senza
saperlo. Penso per esempio alla teoria elettrodebole,
che è l’unificazione tra la forza nucleare debole e la forza
elettromagnetica; ne parlavo di recente con Michel Cassis, che mi dice: “Questa teoria che ci permette di
calcolare, non deve assolutamente essere vera”. Gli domando
perché, lui mi risponde: “Perché non è bella!”. Aveva perciò l’idea che,
matematicamente, una teoria per essere vera deve
essere bella. E molti teorici considerano che la bellezza è un criterio di
verità… Si dimentica facilmente che Godel, il più grande matematico del ventesimo secolo, ha scritto una
dimostrazione matematica dell’esistenza di Dio che, quando la si esamina da
vicino, si rivela essere di fatto la messa in forma matematica della famosa
prova ontologica di S.Anselmo di Canterbury.
Infatti storicamente tutti i grandi
matematici hanno avuto un’intuizione del divino; sono tutti convinti che la
matematica sia il linguaggio di Dio quando si rivela fuori da se stesso.
Noi abbiamo completamente dimenticato che, nei pitagorici e
neo-platonici, la matematica era una potenza dell’anima.
Perché le matematiche sarebbero così efficaci se non appartenessero a un mondo intermedio, che permette di rendere conto, con le
equazioni, di ciò che accade nel mondo sensibile? E’ quello che avevano capito i neo- platonici. E
matematici come Godel o Cantor
con la teoria degli insiemi, ci credevano profondamente. Quest’ultimo ha
stabilito che non si può pensare l’infinito senza pensare
il vuoto o lo zero. L’infinito secondo lui è Dio e l’infinito manifesto è il transfinito. E si dimentica ancora
che la teoria degli insiemi si basa teologicamente sull'esistenza di Dio. Ciò
che mi pare straordinario, è che l'infinito attuale non è possibile se non
attraverso il vuoto e lo zero. Credo che non si siano tratte tutte le
conseguenze di quel tipo di pensiero.
3M. Pensate che nel senso
platonico del termine, il mondo sia matematico?
M.C. Si,
lo penso profondamente. Ma bisogna comprendere che la
matematica platonica, per definizione, è una metamatematica.
E che non si pensi a una sostituzione di una teoria
con un’altra!
Si afferma spesso per esempio che Einstein ha
dimostrato che la concezione di Newton era falsa, mentre in realtà Einstein dimostra che lo spazio-tempo di Newton corrisponde
alla curvatura zero dello spazio-tempo nella teoria della relatività generale.
Si tratta di un superamento d’una teoria con un’altra
più ricca che riporta la concezione anteriore in uno statuto particolare. Lo
spazio euclideo di Newton non è falso. Ci viviamo
approssimativamente dentro ogni giorno! Ma non è che
un caso particolare di una teoria più generale che si evolve oltre.
3M. Come vedete
l’unificazione della conoscenza
M.C. Penso
che se non riunifichiamo l’insieme delle conoscenze umane, andiamo verso la
catastrofe. Ma la questione che si pone è come reintrodurre un pensiero tipo
quello di Shankara o di Plotino,
un pensiero che non si riunisce con amalgami, ma con articolazioni di piani differenziati di realtà, qualunque sia il principio di
quella differenziazione. Per me è la posta maggiore dei nostri giorni; le
questioni ecologiche sono poste altrettanto vitali, per la semplice ragione
che, se la specie umana scompare, i problemi che poniamo non avranno più
ragione d’essere. Questo richiederà un cambiamento di paradigma totale del
pensiero, vuol dire per me che si esca definitivamente
dalla cultura occidentale e dalla cultura cristiana tradizionale, ciò che si
sta largamente producendo.
Il cambiamento di paradigma passa anche attraverso la riscoperta della
funzione simbolica, cioè per il riconoscimento che
esiste uno spazio intermedio nel quale il Principio ultimo, inconoscibile,
irrapresentabile e non partecipabile, si spiega con la sua manifestazione, pur
velandosi, seguendo una modalità di pensiero paradossale. E’ quella funzione
simbolica dell’immagine
che bisogna assolutamente ritrovare, per non restare nel regno
idolatra dell’immagine che conosciamo attualmente. Perché è
quella funzione simbolica che permetterà di assumere l’immagine e oltrepassarla
al tempo stesso.