Michel Cazenave

 

L’immaginazione: potenza dell’anima

 

3ème Millénaire n. 88 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini

 

 

D.   L’immaginazione creativa ha un posto importante nel percorso cognitivo di Jung; in particolare quando parla dell’immaginazione attiva. Ma quell’espressione non implica l’esistenza di un’immaginazione passiva? E di conseguenza, a partire da qual momento si può parlare di immaginazione attiva?

 

MC: Bisogna stabilire  la distinzione tra immaginario e immaginazione. Tutti noi nutriamo un immaginario molto mimetico che poggia  sulla memoria di avvenimenti che abbiamo vissuto, di elementi materiali che abbiamo sotto gli occhi o sulla trasformazione dei nostri fantasmi.

L’immaginario dunque è passivo. La società è immersa nell’immaginario.

Basta percorrere le strade  di una città moderna: pubblicità su tutti i muri, con tutte le immagini televisive. Come dicono i sociologi, siamo nel regno dell’immagine. Ma qual è la qualità di quell’immagine? Qual è il suo status? Credo che sia dell’ordine del fantasma, dell’economia pulsionale, nella misura in cui il pulsionale si radica nella nostra costituzione corporea, o carnale.

L’immaginazione invece esiste come potenza dell’anima.

E qui prendo una posizione metafisica, affermando l’esistenza dell’anima! L’immaginazione è legata al nostro corpo, anche lui in relazione alla nostra anima.  E’ un potere di creazione delle forme. Non sono dunque elementi ricevuti dal mondo nel quale viviamo.

Al contrario, l’immaginazione crea il suo mondo di immagini reali  e sussistenti, pur essendo, ed è fondamentale, ricettiva. Perciò essa è attiva e passiva. Ma bisogna sapere che cosa è quella passività, direi meglio quella passione. Non si tratta più, come nel caso dell’immaginario, di ricevere quello che viene dall’ambiente o dalla nostra struttura. Si tratta del modo in cui riceviamo in noi e custodiamo nella nostra anima, l’Intelletto divino; il modo in cui lo rendiamo con la creazione di un mondo di immagini. Queste immagini non rimandano alla realtà fisica del mondo, ma alla realtà divina.

Quando Jung parla d’immaginazione attiva, prova ad attivare  un potere dell’immaginazione di quel tipo, del tipo del fenomeno visionario, con la messa in opera di immagini spesso mitologiche. Queste sono del tipo dell’enigma del divino. Quella metodologia permette di recuperarsi al di là del me, scoprendo che il me non è che una specie di complesso, pratico quando si tratta di vivere nel quotidiano, ma senza nessuna verità profonda. Recuperarsi è perciò un cammino per ritrovare il Sé, l’immagine divina in noi, che è il nostro Io vero. L’immaginazione è dunque l’accesso al vero Io, al di là di noi.

 

D.      L’immaginazione che è la funzione propria dell’anima, è una situazione mediana tra lo spirito e il corpo, all’incrocio tra la funzione di sensibilità del corpo e l’intuizione pura dello spirito…

 

MC: Jung definisce l’anima in due modi: come mediatrice tra il corpo e lo spirito, che è la visione classica dell’anima, e come l’insieme del conscio e dell’inconscio. Cosa definisce col termine inconscio? Non è l’inconscio fondato su un che pulsionale, come nell’analisi freudiana, sebbene ne neghiamo l’esistenza. Per Jung l’inconscio non è ciò che viene da una storia personale, ma piuttosto un insieme di strutture che improntano l’umanità. E’ l’equivalente dell’idea platonica. E’ in realtà il nome che si dà in psicologia  all’antica concezione dell’anima del mondo. Quando dice che l’anima è l’insieme del conscio e dell’inconscio, significa che l’anima è lo spazio in cui si rivelano le manifestazioni del divino, ciò che Platone chiama le “idee forma”. L’immaginazione è l’espressione di quell’inconscio, in quanto spazio di inconscio del divino. Qui Jung è molto vicino allo shivaismo del Cachemire: l’Assoluto non ha coscienza di se stesso. L’inconscio sarebbe quindi l’inconscio primitivo dell’Assoluto e l’uomo lo specchio in cui l’Assoluto prende coscienza di se stesso. L’immaginazione è allora la ricezione di quell’Assoluto, la messa in atto di quella presa di coscienza, di quel processo col quale l’anima del mondo diviene il mondo dell’anima.

 

D.      Però l’anima del mondo si riferisce a un’unità, all’ unus mundus dei neoplatonici?

 

MC: Non può essere altrimenti. Jung diceva che lo scopo è giungere alla singolarità della propria anima. Ma qual è il rapporto tra l’anima singolare e quella universale? La risposta è straordinaria: ogni anima singola è la totalità dell’anima del mondo. Attraverso la presa di coscienza dell’Assoluto con se stesso, ciascuno porta Dio in sé, nella sua totalità. Nella Bhagavad Gita, Krishna dice ad Arjuna: “Sono in tutti gli esseri, e tuttavia tutti gli esseri non sono in me”. Egli è totalmente in tutti gli esseri, ma si trova al tempo stesso nei milioni di esseri diversi

 

D.      Nella terapia junghiana, si tratta di passare dalla sfera immaginaria, con tutta la soggettività personale, a quei momenti di transizione con l’immaginazione dove ci si trova sulla soglia di una realtà più profonda?

 

MC: Si, certo. Se ci si pone sul piano della terapia, che per Jung non è che una delle applicazioni di ciò che cercava, perché non considerava che dovesse condurvi tutti i pazienti. Si trattava così di determinare il bisogno proprio di ciascuna persona davanti a lui. Pensava a una finalità dell’anima, quella della propria assunzione, che è il passaggio ad un altro livello di realtà; dobbiamo infatti tener conto dell’esistenza di diversi livelli di realtà.

Jung protestava contro la filosofia dominante al suo tempo, che dura ancora oggi, che afferma l’esistenza del solo mondo materiale. Certo anch’io credo al livello della materia, ma anche al livello dell’anima, dello spirito, a quello del divino, perché il nostro cammino è un pellegrinaggio da livello a livello.

Passare dall’immaginario all’immaginazione presuppone un cambiamento di livello. E’ rientrare nell’ unus mundus che dicevamo prima, cioè nel mondo dell’anima. Ciò che segna il carattere dell’immaginazione è che il corpo non è abbandonato e lo spirito non è escluso. Il corpo è segnato dallo spirituale e lo spirito ha il suo proprio corpo. Siamo vicini all’idea dl corpo glorioso del cristianesimo, o del corpo sottile di altre tradizioni. Siamo ad un altro livello di realtà in cui c’è una distinzione tra il corpo e lo spirito, ma la separazione tra i due si cancella. Da qui l’importanza che Jung dà al corpo come partecipe di un’unità globale. Attraverso un esercizio del corpo spesso si può influire sulla spiritualità. Non c’è da scegliere tra corpo e spirito, anzi spesso il contrario, è attraverso il primo che si arriva al secondo. La dicotomia tra il corpo e lo spirito si è avuta nel diciasettesimo secolo, momento in cui  l’istanza mediatrice, cioè l’anima, è scomparsa!

 

D.      Vi augurate la rinascita della mediazione tra corpo e spirito, che è l’anima… perciò è l’immaginazione che manca, anche se siamo in un’epoca di immagine…

 

MC: Siamo in un’epoca dell’immagine - idolo e non dell’immagine - icona! L’immagine oggi non rinvia che a se stessa, o a ciò che appartiene alle nostre pulsioni, o all’organizzazione sociale. Un’immagine totalmente insignificante, che non ha alcun senso paragonata al senso del divino al di là di tutto.

Quando sento parlare di società dell’immagine, domando di quale immagine si tratta! L’immaginario si autoriproduce  da sé e annulla tutto fino a che non ne siamo totalmente pieni. Abbiamo bisogno di reinstaurare una vera filosofia dell’immagine. Penso a delle considerazioni di Maitre Ekhart su quale sia l’immagine più vera e così simile al suo modello da confondersi con lui. Si tratterebbe di ritrovare quelle immagini che sono quasi l’identità del principio nel suo movimento di rivelazione. Certo, l’Assoluto ci sfuggirà sempre, non ne avremo mai nessuna immagine. Ma l’immagine è uno stadio che ci consente di acquisire l’Assoluto nella misura in cui si manifesta. Fino a che la stessa immaginazione sia superata. Se si resta allo stadio dell’immagine, questa ci impedisce di andare più lontano.

 

D.      L’immaginazione riprenderebbe allora il suo ruolo di mediazione tra due mondi. Ma quel ruolo è stato totalmente dimenticato. Ma non si passa dalla materia allo spirito senza quell’intermediario. Pensate questo?

 

MC: Direi perfino che il passaggio diretto dal nostro corpo allo spirito senza mediazione mi lascia perplesso. Quello che mi colpisce nella spiritualità occidentale, che spesso si è basata sul disprezzo del corpo, è il suo aspetto disincarnato. Trovo stupefacente che una religione che è quella dell’incarnazione finisca nella disincarnazione dei suoi seguaci. Non vedo come sia possibile giungere ad una spiritualità  senza passare per l’intermediazione del corpo in una unità con lo spirito. E l’unità con lo spirito si fa  con l’intermediazione dell’anima. Bisognerebbe riprendere il pensiero di uno degli ultimi grandi alchimisti, allievo di Paracelso, secondo cui il cammino, che è un cammino mistico, è dapprima realizzare la congiunzione tra l’anima e lo spirito, poi di riunire questo col corpo. Bisogna notare che si tratta di unire anima e spirito, e questo suppone la loro differenziazione, contrariamente ai nostri giorni, dove c’è a questo riguardo una gran confusione.

 

D.      Si può avere vera immaginazione senza la funzione del sentimento?

 

MC: No. Come junghiano, dò una grande importanza al sentimento. E’ qualcosa che si fonda sull’emozione, ma al tempo stesso si fonda su una capacità di valutazione. Questo è un processo razionale che si esercita a partire dal modo in cui abbiamo sentito qualcosa. Mi auguro che finisca la posizione unilaterale, secondo cui c’è l’intelligenza o il corpo, la ragione o l’emozione. I due trasmettono un lampo della verità. Si tratta di vedere come  sia possibile  far interagire l’uno con l’altro,  fargli ritrovare il punto d’incontro a condizione che questa unità non sia pensata come parte del nostro mondo fisico. Saremmo allora nell’ordine del fantasma, fuori dalla realtà dei livelli di realtà.

La vera immaginazione attiene alla funzione religiosa.

Del resto Jung nega l’etimologia che si dà alla parola religione, cioè legarsi. Quella etimologia fantasiosa fu inventata nel quarto secolo. Ora, la parola religione viene dalla radice legs: la religione è prima di tutto osservazione e l’esame di ciò che gli dei ci domandano. Siamo perciò nell’ordine dell’emozione sentita dall’azione degli dei e nella domanda: cosa vogliono da noi? Non c’è osservanza se non c’è prima osservazione. Abbiamo dimenticato che logos e religione vengono dallo stessa radice, legs. Siamo nella dialettica del sentire e dell’esaminare. Credo che occorra tener insieme i due lati della catena. Infatti viviamo nel mondo della manifestazione ed abbiamo una unità che è differenziata. Dobbiamo assumere questo come differenziazione, a condizione di trovare il punto di unità. Quella unità è dinamica, in progressione, tendente alla congiunzione degli opposti, secondo i temi della grande teologia. L’unità è soggiacente, è quella dell’ unus mundus.