Fabrice Midal

L’immaginazione creatrice del Tantra

3ème Millénaire n. 88 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini  

 

 

Alex Lavis.   Avete pubblicato una introduzione al tantra buddista da Fayard. Ciò che colpisce subito nel tantra è il simbolismo esuberante. Quel rapporto intenso  con l’immaginario non allontana dalla nostra vita e dal mondo in generale?

 

F.M.   Mettete il dito su un punto decisivo. In effetti noi occidentali siamo fermamente convinti che possiamo avere un rapporto col reale in due modi: il concetto e la percezione. Il concetto è la via principale, perché ci permette di mettere il diverso sensibile in una unità permanente. Così un san Bernardo e un bulldog  non hanno niente in comune dal punto di vista della nostra esperienza sensibile. Pertanto sono tutti, come dice Spinoza, “un animale che abbaia”.

La percezione è più soggetta a cauzione, perché ci inganna, crediamo di vedere un cane ed è un lupo, ma ci permette anche di ancorarci alla realtà.

L’immaginazione è sempre stata considerata in Occidente come un pericolo che rende tutto confuso. Così il tantra, col posto centrale che dà all’immaginazione creatrice, ci appare difficilmente comprensibile. Sono stato anch’io a lungo confuso da quel pregiudizio.  Mi dicevo: la pratica della meditazione  tende a riportarci al presente, a finirla coi sogni e i giochi illusori, a ritornare alla semplicità del contatto dell’acqua tra le mani, del respiro dalle narici…

Sconvolto dalla potenza dell’insegnamento di Chogyam Trungpa, sono andato negli Stati Uniti per incontrare molti studiosi e scrivere un libro su di lui. In quella occasione ho incontrato il poeta Allen Ginsberg, amico e studioso  di Trungpa. La conversazione portò al suo maestro, ma subito mi meravigliai che un buddista come lui si interessasse di William Blake, che in Occidente è uno dei più grandi esempi di visionario. Quel giorno ho avuto una bella lezione.

Vedete, il concetto occidentale della percezione è molto strano. Forse non ve ne siete mai reso conto, ma quando diciamo, percepisco un albero, intendiamo: io, che sono qui, percepisco un albero là, oggetto della mia attenzione. La percezione avviene nella dualità soggetto/oggetto. Si basa su un’identificazione molto rapida: là un albero, là una sedia, là una pianta. Non ce ne rendiamo conto. Blake dimostra che l’immaginazione è sempre all’opera, nel senso che non vediamo niente senza che la nostra mente non ne giochi un ruolo. L’immaginazione creativa ci libera dai meccanismi mortiferi che restringono tutto. In questo senso Blake può scrivere in una lettera a un pastore che si stupiva dell’aspetto visionario della sua opera: “Sento che un Uomo può essere felice in Questo Mondo. E so che Questo Mondo è un Mondo d’Immaginazione e di Visione. Vedo tutto ciò che penso  in Questo Mondo, ma tutti non vedono allo stesso modo. Agli occhi dell’Avaro una Ghinea è più bella del Sole e un Sacco usato per il denaro ha proporzioni più belle di una Vigna piena d’Uva. L’Albero che fa versare agli uni lagrime di gioia non è agli Occhi di un altro che una Cosa Verde che si erge di traverso sul cammino. Certi non vedono nella Natura che Ridicolo e Difformità, altri la Natura la vedono a stento. Ma agli Occhi dell’Uomo d’Immaginazione la Natura è l’Immaginazione stessa. Secondo quello che l’uomo è, cosi Vede. Secondo il modo in cui l’Occhio è formato, così sono i suoi Poteri. Vi sbagliate sicuramente quando dite che le Visioni dell'Immaginazione non si trovano in Questo Mondo. Per me Questo Mondo non è che una Visione continua dell’Immaginazione”.

Ecco ciò che Ginzberg mi ha mostrato. Leggendo Blake, ha compreso che creiamo il mondo ad ogni istante in modo meccanico, abituale e in fondo molto povero. L’immaginazione è la capacità insita nell’uomo di entrare in un rapporto vivo con qualsiasi cosa.

 Bisogna distinguere qui l’immaginazione della fantasia da quella di altre fantasticherie. La prima è un rapporto libero, connaturato con la realtà, l’altra ne è interamente distaccata. In Occidente sono i poeti e tutti gli artisti che ci mostrano  come aver accesso a lei.

 

D.      E nel Tantra?

 

Per riuscire a comprendere il ruolo dell’immaginario nel tantra, bisogna fare un passo indietro per prendere la misura della nostra rottura con quella dimensione. Se no rischiamo  di sbagliarci sul senso del tantra.

Quando ci si avvicina alla realtà spirituale, diventa ben presto assurdo accontentarsi di una parola che dia spiegazioni. Con le parole  non ci si può che allontanare dall’immediatezza di una autentica trasmissione. Sapete, il tantra è il nome della mistica inerente alla tradizione buddista, che è presente in ogni luogo dove il buddismo si è radicato. Invece di fare un lungo discorso, l’approccio tantrico ci mostra una cosa, ci fa compiere un gesto.

Nel tantra, viviamo dunque in seno al simbolismo. A una domanda, di fronte a una situazione, la miglior cosa è mostrare un simbolo. Per l’uomo ordinario è di una grande complessità, lui preferirebbe che si spiegasse tutto. Per chi ha ascoltato l’immensità del cielo, è il solo modo per essergli fedele.

 

D.      Cosa è che chiamate simbolismo?

 

L’errore comune in Occidente è comprendere il simbolismo da un punto di vista concettuale. Secondo questa logica, bisognerebbe avere studiato l’insieme dei dizionari dei simboli per incominciare a entrare nel mondo simbolico. E’ veramente sbagliato. Non si tratta di padroneggiare un sistema di riferimenti, ma di essere sempre più sensibili al fatto che viviamo in mezzo a un mondo di significati.

 

D.      Quali sono i grandi principi simbolici del buddismo tantrico?

 

 Il principio più importante è che tutto, nello spazio aperto del tantra, è sacro. Bisogna ben riconoscere che non viviamo in un tale mondo, ma il tantra ci invita a una salutare conversione del nostro sguardo su di lui e ad abbandonare il rapporto ordinario con le cose, interessato e compulsivo.

In più, il tantra considera tutto a partire dallo spazio. Si trovano nei testi molti modi di descriverne le diverse  variazioni e modalità. E’ decisivo perché se certi intendono che lo spazio è l’apertura incondizionata, questa visione (dharmakaya) prima di tutto pensata, è però molto più difficile da realizzare che l’apparizione dei 5 colori ( le 5 famiglie di Budda)- puri raggi di gioia(sambhogakaya )nello spazio. E’ l’espansione dinamica dello spazio.

Nella nostra civilizzazione, la dimensione  del mondo intermedio, che è il sambhogakaya, cioè il mondo immaginario, è stata completamente nascosta e così viviamo in un mondo duale diviso tra materiale e spirituale. Il tantra apre la possibilità di una trasformazione, rendendo corporeo lo spirito e spirituale il corpo. In questo si avvicina molto alle tradizioni alchemiche occidentali.

Bisogna veramente prendere coscienza che moriamo per quella perdita di rapporto con l’immaginario. Essa ci taglia fuori letteralmente dalla possibilità di essere pienamente nel mondo. Prendiamo per esempio lo svolgimento dell’iniziazione(abhisheka): all’inizio vi si incorona, vi si eleva alla dignità di chi può incontrare la divinità. Poi vi si fa entrare nel suo palazzo, il mandala, cioè il mondo sacro, vi si presenta la divinità perché possiate invocarla e unirvi a lei. Non è una fantasia, ma una vera introduzione  alla possibilità di stare nel mondo nel modo più degno, come una divinità.

 

D.   Quelle che chiamate divinità, in cosa differiscono dagli dei del bramanesimo o della Grecia, e perché l’iniziazione è una pratica diversa dai culti politeisti?

 

E’ vero che il ruolo delle divinità nel tantra può meravigliare. E’ l’ultima cosa che ci si può attendere, quando si segue Budda, quella di cadere su quel delirio di dei! Bisogna fare uno sforzo  per superare la china delle idee ricevute e della ingenuità superstiziosa o del positivismo stantio. Non è evidente vedere subito ciò che sono le divinità tantriche e il tipo di esperienza  a cui si riferiscono.

Ma, per rispondere più direttamente alla vostra domanda, le divinità di cui parla il buddismo non hanno nulla a che vedere  con l’invocazione ad un dio esistente all’esterno di sé, a cui bisogna credere e da sedurre con riti e sacrifici. E nemmeno con la tendenza della mente; le divinità sono fuori da ogni idea convenzionale; sono l’espressione di una modalità e di una tonalità d’essere, sono la verità di un’esperienza di cui non è possibile fare la prova.

Facciamo l’esempio dell’eroe di Chretien de Troyes, Perceval  le Gallois. Egli è perduto, non sa se bisogna chiedere e quando tacere, ignora l’origine del suo errore, vive così lontano da se stesso da non conoscere nemmeno il suo nome. Viene allora una giovane donna che glielo rivela e, facendo questo, lo mette nel cuore della sua esistenza. Si può dire che le divinità sono sia la giovane che il nome: vi fanno entrare nel mondo.

 

D.   Vorrei farvi una domanda un po’ provocatoria: perché tutte quelle divinità, quei mantra, quei mandala…mentre ciò a cui tende il Budda è la semplicità radicale?

 

Ma la ricchezza della simbologia tantrica che si trova nei tangka tibetani o nei mandala di Borobudur è semplice come un giardino zen! Se non vedete la semplicità, il fatto che tutte le divinità sono spazio, non comprendete il tantra. La molteplicità dei fenomeni nel tantra è vuota di ogni sostanza, di ogni ego, pura espansione di spazio, di luce, di colore. E’ un pregiudizio credere che  l’austerità delle forme sia più vicina alla vera semplicità della più alta ricchezza simbolica. Il tantra non è che un modo inaudito, magnifico, di aiutarci a ritrovare la semplicità della presenza. Nella mia esperienza, è tanto più necessario oggi, appropriato ai nostri tempi, in cui si dà così poco posto al sacro e alla poesia. Il nostro mondo ha inventato la leggenda del mondo morto. Mi ricordo il mio terrore quando, bambino, in quarta classe, ci si domandava di sezionare dei topi bianchi per comprendere il vivente. Era un simbolo, il simbolo del mondo in cui da adulti avremmo dovuto vivere, un mondo per il quale tutto è meccanismo smontabile. “La scienza, dice Merleau- Ponty, manipola le cose e rinuncia ad abitarle ”. Non si tratta di vivere come all’età della pietra, ma, come dice George Braque, di sapere che “l’arte vola al di sopra, la scienza dà delle quisquiglie”. Come esseri umani abbiamo, dal più profondo del nostro essere, sete del blu del cielo, di ciò che è al di là delle motivazioni occasionali e meschine.

Non si tratta di attaccare la scienza, ma non possiamo accettare la sua usurpazione, quando si pone come autorità dogmatica assoluta,  come il solo sguardo legittimo sulla realtà, il solo discorso di verità.

Non si tratta di criticare la modernità. Essa è la nostra ancora di salvezza quando è autenticamente poetica. Essa salva con la tradizione le possibilità dell’essere. Un pittore come Cesanne non smette di mostrarlo, lui che volle fare il “Pulcino sulla natura”, cioè volle provare l’antica saggezza a contatto con la cosa più semplice, una semplice montagna che diventa il trionfo della pittura. Ma quando l’ideologia del nostro tempo si accanisce contro la poesia, quando ci ingiunge di essere contro il nostro cuore, contro il crogiolo dove tutto si può riaccordare, quando squalifica ogni discorso sul mondo vivente, quello di Cesanne come quello di tutti coloro che vedono, allora bisogna liberarsene.