Hélène Naudy
Omaggio alla paura
3ème Millénaire n. 86 – Traduzione
della dr.ssa Luciana Scalabrini
La paura
Hum, il
bambino è nato con lei. Il suo corpo ne è impregnato.
Essa è
stata la sua compagna.
No, la sua nemica. Io temevo sempre di più di
avere paura.
Di essere
paralizzata dalla mia negazione che allora non potevo
chiamare così.
La paura.
Interrata
là, nel mio ventre, che si risvegliava alla minima dimenticanza di me stessa…
Come io mi sono dimenticata…
E le domande
ritornavano, ritornavano, restando senza risposta:
“A che
serve tutto questo?”
“Perché
vivere se si soffre ogni momento per non sapere, per non comprendere, .per non sapere cosa è il reale”.
“
Ragazzina, dov’è il reale? Che cos’è?”
La
percezione era che il mondo sottile non era differente dal mondo materiale.
Erano percepiti in parallelo. E presentivo che gli altri non consideravano
che il mondo tangibile. Ero folle? Avevo delle allucinazioni? Dove si trovava
il reale?
Ecco la grande paura che mi terrorizzava.
Ciò che
percepivo era sistematicamente messo in dubbio. Anche l’albero
che vedevo, fino alla tavola sulla quale
servivamo il pasto. Che è il reale? La
domanda ritornava, restava senza risposta.
Forse quel muro posso attraversarlo? Se non sono reale, se il mio corpo non è che atomi. E questi atomi, perché sono uniti gli uni agli altri? Perché formano un corpo? Perché gli
atomi di quell’albero sono uniti gli uni agli altri e formano quell’albero? Per
quale necessità? Tutto ciò è inutile? Molto prima perfino dell’ipocrisia, della
gelosia, dello spirito di competizione tra gli uomini, molto prima dell’odio e
delle critiche, tutto è così inutile. E poi, realmente, chi sono?
Perché non sono sciocca. Non sono il corpo, il mentale, la personalità. Lo so. Da dove lo so?
Non lo so, ma lo so.
A parte
questo, niente, non comprendevo niente.
Non vedevo nessuna risposta seria, dirò anche scientifica.
A sedici
anni, Jean Klein mi darà degli elementi di risposte. Si,
degli elementi perché esse saranno unicamente intellettuali e per niente
vissute. Per quello, arriverò ai miei ventotto anni. Là dovrò guardare
da vicino quella paura viscerale. Dovrò? Si, perché non mi
permetterò più di passarle vicino, di fare quella che sa.
Il sapere
intellettuale( non duale come psicologico), benchè mi abbia
consentito di non arrivare al suicidio, non mi permetterà di essere in
pace. Oh, ne sarò ben consapevole: non era che uno stratagemma per non cadere
in un abisso che non potevo né sentire né guardare in
faccia all’età di sedici anni.
Allora si,
le paure si manifesteranno, non di nuovo, perché non mi lasceranno, ma là, si
manifesteranno e io le lascerò manifestarsi. Non resisterò più.
Angosce insostenibili, tanto
da non sapere dove potevo sedermi, dove posarmi, senza nessun luogo esterno
dove potermi sentire se pur superficialmente al sicuro, senza nessun
luogo interiore dove sentissi un’ombra di pace.
Malgrado il fatto che
vedessi quella paura, essa era ancora troppo gigantesca, mostruosa. Un titano.
Andate e ritorni,
immersioni, ripiegamenti compulsivi, anestesie del mentale, neuroni
tetanizzati, membra inerti, nessuna nozione di realtà. Dove
è il reale? Cosa è?
Pffffffffff.
Non so.
Andate e
ritorni…Quanti? Anche quello, non lo so. Poco importa.
Pero,
però.
Presentivo
che mi era possibile…
In un
istante vuoto d’intenzionalità, sento: essere lì con ciò che si presenta…
Vedevo: il
mentale aveva paura. Non poteva morire( mi sono domandata, rileggendo questo
passaggio se non mi ero sbagliata verbo: non poteva o non voleva morire? Ma è proprio questo: non poteva morire), nonostante il suo
intenso desiderio di essere in pace e di fondersi col non mentale io sono.
Essere con… Nell’istante mi resi conto che tutto questo restava concettuale,
intellettuale, si, sempre mentale: più la paura era grande, più il mentale si
aggrappava. Teneva. Ero in un blocco, bloccata nel mio desiderio di finirla con
la paura.
Improvvisamente,
lo sguardo si illuminò con quella comprensione viva:
bloccata nel mio desiderio di finirla con quella paura.
Là mi
stavo rendendo conto che col mio desiderio di finirla rifiutavo la paura.
Si, la rifiutavo. Quello notai. E dopo? Non sapevo,
non avevo nessuna intuizione di come uscire dalla
situazione.
…Ah!
Volevo ancora uscirne. Ma si, era evidente. La paura
invadeva il mio corpo e il mio sguardo al punto da avere la netta impressione che
il viso stesse per esplodere.
Per un
impulso venuto da chissà dove, mi alzai, mi misi le scarpe, il soprabito e
andai a passeggiare nel parco vicino. Era autunno, ricordo. Guardai gli alberi,
l’erba.
Gli
alberi.
…questo mi
ricordò: sentire.
Essere con quel non so
senza sovrapporvi un’idea che lo mascherasse: familiarizzarsi con lui, senza
desiderio di fare scomparire quella paura che mi attanagliava. Senza
sovrapporre. Di nuovo, mi resi conto: è il mio rifiuto che mi
divide da quella paura, rifiuto che provoca quella sovrapposizione inconscia:
voglio eliminare quel peso ad ogni costo.
Là, in
quell’istante preciso, i concetti volarono via, intrisi di:
“ Non so”
è l’apertura alla disponibilità.
Lo sentii
là, dal vivo.
Lo sentii
là: quella disponibilità ritornava a me senza posa.
La paura
tornò. Immediata, brutale, sempre viva, titanica.
Questa
volta, non dialogai, non provai a comprendere, ascoltai
la paura…La sua vibrazione, svuotata da ogni idea mentale. Nel ventre, nella
testa, negli occhi, si propagava nel corpo, separava il cervello destro dal
cervello sinistro, separava i cervelli gli uni dagli altri che si scontravano
tra loro e si condizionavano coi movimenti di panico.
Venne un pensiero, folgorante: “ la paura divide”, non concettualmente, no, no.
Percepito. Percepito. Qualche cosa che sorge e muore
nell’istante.
Diventai
sguardo, senza centro, senza luogo che desidera
memorizzare il sapore di quel sorgere.
Divenni
percezione…Disponibilità, discernimento, lucidità e abbandono nello stesso istante.
Improvvisamente
vidi: non c’è più separazione perché non c’è più rifiuto.
La paura
si è dissolta. Io, non facevo niente.
Io? Non
c’è nessuno.
E pertanto, così
totalmente presente.
Solo una immensa pace silenziosa.
La vita
stessa. Là.
La vita stessa in corpo, in discernimento, in assoluta
presenza.
Là, potevo
dire, perché percepito: io sono.
Senza più domande, perché la risposta era totalmente
incomprensibile per il mentale e assolutamente vissuta come totale: la vita è. Io sono.