Jean Bouchart d’ Orval
La felicità si può localizzare?
3ème Millénarie n.
75 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini
“Questa felicità non è come l’ebbrezza del
vino o quella delle ricchezze, e nemmeno somiglia all’unione con l’amato. (…) Quando ci si libera dalle differenziazioni accumulate, lo
stato di felicità è un’allegrezza
paragonabile a mettere a terra un fardello”
(Abhinavagupta
- Otto stanze sull’incomparabile Kashmir. Inizio
XI sec)
Nonostante le storie che abbiamo
l’abitudine di raccontarci, tutti conoscono intimamente la felicità, o
piuttosto tutti sono la felicità. Cosa potrebbe
esserci di più universale? Tutti gli esseri vi tendono spontaneamente. Tutto
ciò che facciamo, tutto ciò che diciamo e tutto ciò
che pensiamo è diretto verso la felicità.
La sofferenza stessa è tutta quanta rivolta
verso di lei. E’ a causa della felicità che può esserci la sofferenza; se no
come faremmo a sapere che soffriamo? Da dove questo ci potrebbe venire?
Ogni oggetto percepito nello stato di veglia
è l’espressone della gioia inerente alla nostra
profonda intimità, che è luce cosciente. E’ un po’ come l’universo del sogno,
che è l’espressione stessa del sognatore e non può in alcun caso esserne
separata. Il mondo è la storia della gioia.
Da questa gioia, da questo rapimento senza
tempo, sorge spontaneamente un’irresistibile slancio
col quale l’Incomparabile, il Semplice appare a volte come qualcosa e a volte
come chi conosce questo qualcosa. Questo impulso a manifestare ciò che è
così bello si attualizza in un’apparente frattura e una cristallizzazione
crescente attraverso le quali ciò che non cessa mai
d’essere pura luce cosciente ne viene ad assumere i ruoli di soggetto e
oggetto. Non bisogna però vederci delle tappe, ma piuttosto degli aspetti di
ciò che chiamiamo universo.
E’ per pura disattenzione che non ci
rendiamo conto di questo e continuiamo a vivere nelle nostre mortifere
abitudini.
Quando credo di vedere un oggetto, cosa succede
in realtà? Questo “oggetto” per effetto della memoria è staccato da tutto ciò
che non è, e dallo sfondo. Il soggetto, anch’esso, si distacca. Questo processo
è tanto rapido e incessante che non lo rileviamo fin dalla nostra più tenera
infanzia. Vedete, quanto più il bambino invecchia e si fissa sempre di più nelle
proprie immagini piuttosto che stare direttamente con ciò che è lì, più perde la sua capacità di allegria e di gioia spontanea.
Alla fine tutto l’universo dello stato di veglia, compreso
quello descritto dalla scienza, non è che un’immagine.
E’ proprio per questo che siamo sempre così
ignoranti di ciò che sono veramente le cose così elementari come lo
spazio, il tempo, la materia, la luce e la vita.
Dopo tanta scienza nessun fisico è capace
di dirvi che cosa è la materia. Nessun biologo può spiegarvi cos’è
la vita. Gli psicologi e gli psichiatri possono ancor meno spiegarvi che cosa è
la Coscienza. E dopo tanti anni sulla terra alla sua
ricerca, chi di noi può dire che cosa è
la gioia? E’ che noi cerchiamo di spiegare il territorio con la mappa.
La luce cosciente è tutto e la gioia è il suo profumo.
L’atto viene dalla gioia, e non il contrario. Ogni atto è la gioia in cammino e
non è mai separato di un millimetro. Quando si è presi da questa
evidenza folgorante, si cessa d’agitarsi per appropriasi e conservare
oggetti o persone o per cercare o fuggire situazioni.
Cosa c’è allora da rimpiangere, da perdonare,
da perseguire, da promettere?
Quando si è scossi dalla verità semplice e
sconvolgente, come si può ancora cercare di trasformarsi, purificarsi, equilibrarsi
“risvegliarsi” o “realizzarsi”? Questa
agitazione non appare semplicemente più.
Le vie interventiste – tutti
quegli insegnamenti profondamente inutili che vi chiedono di fare questo o
quello, di adottare quella ideologia, questa o quella
attitudine per giungere alla pace -, così rassicuranti per l’immaginario
egotico, cadono. Non vi viene più l’idea di fare il buffone in un asilo
spirituale. Improvvisamente non pretendete più di aver bisogno di un giocattolo
per andare bene.
Cercare la gioia non è vederla, anche se è la gioia
stessa il motore di questa ricerca.
E’ l’identificazione della gioia con
un’immagine - una traccia lasciata da una esperienza
-, che ci fa credere che noi saremo felici senza questo cane, questo gatto,
questa casa in campagna, questo matrimonio, questo divorzio o questo grande
guru. Il desiderio è mosso dalla gioia, ma la sua espressione è collegata al
conosciuto, al contenuto della memoria; cosa posso volere se non ciò che
conosco? Il desiderio è sempre una restrizione, è una
sofferenza. Tutte le sue forme, compresa la più “nobile” sono il desiderio d’altra
cosa , che viene dal fatto che non sappiamo
guardare ciò che è lì. Il desiderio sorge con la nozione che esista
qualcosa d’ “altro”, una nozione assolutamente legata a quella alienazione, che
è la sensazione di essere qualcuno.
Guardate. Quando
il vostro corpo vi manda un segnale ben localizzato, è perché ha una
restrizione a questo punto e l’energia non circola liberamente. Questo si può
trasformare in quella che chiamiamo malattia. Potete
facilmente identificare il punto preciso dove avete male. Ma
quando sentite il benessere nel vostro corpo, potete dire dove state
bene? Il benessere non è da qualche parte, la gioia non è
localizzabile. Non siete qualcuno. Localizzarsi nella
miserevole immagine di un qualsiasi se-stesso crea una
distanza, una separazione, e genera il mondo del desiderio e della paura che
conosciamo. La distanza così creata e il movimento agitato che suscita, genera
l’apparizione di quell’altro immaginario che è il tempo. Desiderare è
desiderare ciò che è laggiù e questo non può essere concepito che
nell’immaginario di un altro momento.
Così dunque, il desiderio si nutre
dell’immaginario di un passato e si proietta nella realtà virtuale di un
futuro; ma non si esiste veramente che in un istante atemporale, che noi
abbiamo convenuto chiamare l’istante presente.
Tentare di risolvere la questione del
desiderio – la ricerca della gioia – nel mondo abituale, occupandosi del
passato e del futuro, cioè analizzandosi (o pagando
qualcuno per farlo) o prendendo buone decisioni riguardo alla propria vita
futura, è ficcarsi di più nel lamentevole solco virtuale, nel quale la maggior
parte degli esseri umani sono impelagati. La cosa non può davvero essere
risolta, se non interessandosi a ciò che c’è piuttosto che rivolgersi
verso ciò che non c’è e dà origine al tormento.
“Tutto ciò che si rivela quando l’ondata d’impressioni sorge con
veemenza, è quello stesso che bisogna osservare con intensità: se tu vi apparivi e apparivi ancora
all’inizio, nel mezzo e alla fine, oh, l’universo differenziato
si dissolverà”
(Abhinavagupta
– Dodici stanze sulla realtà suprema. Kashmir. Inizio XI sec.).
Quando sentite un desiderio, ciò che è importante
non è il cosiddetto oggetto del desiderio – che non è lì -, ma il desiderio
stesso. Quando vi interessate a ciò che sentite direttamente,
come sapete che avete un desiderio? Come sapete che siete tormentati? Voi
cominciate già a essere reali e l’idea d’essere
qualcuno infelice se ne va. La sofferenza viene sempre da una immagine: la
realtà, lei, è profondamente tranquilla e gioiosa. Quando realizzate che non fate che assistere a ciò che chiamate la
vostra vita e che non siete un ammasso di molecole separate dall’universo
che possono prendere delle decisioni “liberamente” e avere delle responsabilità,
allora ciò che era aggrovigliato si distende naturalmente. Quando sentite
la tensione e la paura legata ad ogni forma di desidero,
senza localizzarvi di nuovo e diventare tutt’uno con la storia, quando constatate
quanto tutto ciò non è che percezione di adesso e che questa percezione
è solo una apparenza della pura luce cosciente che voi siete, non sentirete
più l’urgenza di soddisfare il desiderio e nemmeno di reprimerlo.
Sentite un’altra specie d’urgenza:
quella di non fare nulla nell’immediato.
In questo “non fare niente” ciò che si deve
fare si compie, ma non c’è più quel patetico personaggio ansioso. Li’ c’è
gioia, senza preavviso, in un momento di distrazione, dove avete dimenticato
d’essere assillato da voi stesso.
“Attrazione e repulsione, piacere e dolore,
alzarsi e coricarsi, infatuazione e abbattimento ecc, tutti questi stati che
partecipano alle forme dell’universo si manifestano
come diversificate, ma nella loro natura non sono distinte. Ogni volta che
afferri la particolarità di uno di questi stati, attento subito alla natura
della Coscienza come identica a sé, perché, pieno di questa contemplazione, non
ti rallegri?” (Abhivanagupta)
Tutto è infinitamente più semplice che non
si creda. Guardiamo molto, troppo lontano. Non c’è niente
laggiù, non c’è domani. La felicità interiore non esiste più della
felicità esteriore; c’è la luce cosciente, che è gioia senza oggetto. Il
momento presente è una figura retorica, perché non c’è tempo, solo un Istante atemporale che include la storia del tempo.
Quando la vostra gioia non è tranquillità,
quando tende a qualcosa, è una gioia di anticipazione,
cioè una agitazione dissimulata sotto l’apparenza di un falsa gioia – se siete
abbastanza attenti a ciò che sentite veramente – e non più alla storia
associata a tutto ciò che è memoria e proiezione -, vi accorgerete che ciò che
avete prima chiamato distrattamente felicità o piacere, non è che tensione,
paura e sofferenza.
Nella gioia, non c’è nessuno che sia
gioioso. Nella meraviglia, non c’è nessuno che si meraviglia.
La gioia tranquilla non è inerte, è energia
viva, ribollente; ma questa energia è libera, senza
nessuno scopo, nessuna direzione, nessuna inquietitudine. La gioia vera non
dispare né diminuisce di uno iota quando la vostra
amichetta vi lascia, quando vostro marito vi tradisce, o quando vi capita di
sapere che avete un cancro avanzato. Questa gioia potete sentirla in voi
svegliandovi al mattino, prima di pensare alla vostra
giornata, prima di ridiventare qualcuno, prima che la vostra persona,
costretta, non ricominci ad agitarsi.
Non dovete lottare e meritare la felicità,
perché è il profumo della vostra vera natura. Non c’è niente da scegliere nello
stato di veglia, più che nel sogno. Volersi appropriare di
una cosa, di uno stato, della felicità, è sognare ancora. Ci si può risvegliare
nello stato di veglia. Ma non ci si può dirigere
deliberatamente verso questo “risveglio”, perché allora è ancora un’immagine,
un nuovo oggetto, di cui appropriarsi.
Conviene prima osservare onestamente quanto
ci si localizzi costantemente, quanto ci si restringa senza posa, quanto si
soffra per la fallace promessa di un domani virtuale.
Basta questo; il resto succede
naturalmente. Lo sforzo è segno d’ignoranza, d’essere. La vita è bella senza
ragione.
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