Fuori
dallo sforzo, nell’abbandono
3ème Millénaire n.74 – Traduzione
della dr.ssa Lucina Scalabrini
A quelli per cui il risveglio
spirituale è diventato un obbiettivo, si pone sempre la domanda se è necessario
lavorare per l’obbiettivo o se quello può essere ricevuto come una grazia.
Tutto ciò che concerne l’esistenza personale è retto
dall’esigenza del lavoro. Per acquistare conoscenze, dobbiamo studiare e il
risultato è generalmente a misura del nostro sforzo. Se
vogliamo sviluppare i muscoli del corpo, è necessario fare un lavoro importante
e regolare. E con lo scopo di vincere la propria timidezza o di
essere meglio organizzati, oppure meno impulsivi, possiamo trovare delle
discipline che ci aiutino a progredire in quei campi.
Le leggi dello sforzo e del lavoro che reggono la via personale sono
generalmente trasposte nella via spirituale, e il
ricercatore incomincia così a trovare nel mercato spirituale la pratica ideale
che gli permetterà di ottenere quella nuova ricompensa.
E’ dimenticare che la rivelazione spirituale non procede in
realtà con le stesse leggi.
La spiritualità non è un affare personale, anche se la via personale può trovarsi toccata in un modo o nell’altro dalla
propria rivelazione. E’ certo che, non essendo la spiritualità “qualcos’altro”,
ma l’essenza di tutte le cose, ogni avventura personale viene
toccata da tutto questo. Ma il fatto di attaccarsi alla realtà personale, cioè lavorare su di lei per ottenere quello che precede
l’esistenza personale e che le sopravvive, è un errore di parallasse, una
follia.
Dicendo questo, non nego il valore relativo di tutti gli
sforzi, ma cerco di rimettere la questione del
risveglio spirituale in una più giusta prospettiva.
Il risveglio spirituale non nasce da uno sviluppo personale.
Dobbiamo comprendere che questo amalgama molto diffuso
tra il bisogno di star bene e di avere successo e la rivelazione spirituale è
all’origine di tutte le confusioni.
Se
il risveglio spirituale può avere ripercussioni fisiche, emozionali o sociali,
il fatto di trattarlo col pensiero, la riflessione e lo sforzo, le sfere della
via personale non produrranno il risveglio. Si tratta dunque, per riprendere
una formula popolare che dissiperà ogni ambiguità, di non mettere il carro
davanti ai buoi.
Il ricercatore spirituale è spesso così disperato di fronte
alla sua esistenza personale che è pronto a tutto pur
di darle un po’ più di lustro. E’ per arrivarci che si mette nella ricerca.
Ma
il ricercatore spirituale è il grano di sabbia nel meccanismo cosmico.
Il miglioramento che cerca disperatamente
è fondato sull’ignoranza della sua vera natura così come della
condizione umana. La prima è eterna, la seconda effimera. Quello
che investighiamo ciecamente e senza partecipazione nella nostra vita personale
è molto spesso una negazione della nostra vera natura.
Ogni volta che vogliamo cambiare durevolmente le cose alla
superficie della nostra vita, come se queste fossero eterne, e modificabili a
nostro gradimento, partecipiamo all’ipnosi collettiva e non a
una via spirituale.
Quando la volontà di modificare la nostra appartenenza, le
nostre attitudini, il nostro destino, si inscrive
nella ricerca spirituale, allora siamo nella forma più scoperta di
spiritualità.
Se il lavoro è una lotta, uno sforzo, la rivelazione della
nostra vera natura si manifesta nell’abbandono di ogni
di ogni lotta e di ogni sforzo personale.
Senza impedire ad ogni sorta di scuole spirituali di
proporre un nuovo lavoro, permettendo di affidarglisi.
Perché, alla fine, bisogna ben fare qualcosa, no?
La questione resta dunque intellettualmente insoluta. Queste
parole non cercano di dissolvere il mistero, ma di sollevare il paradosso della
ricerca.
Nella coscienza che la nostra ricerca è falsa in partenza,
per le anticipazioni e le speranze del ricercatore, è possibile che si allenti
un po’, il tempo di un lampo forse, la formidabile tensione della ricerca,
all’origine di tutte le sofferenze e della cecità generale sulla meraviglia
dell’istante sgravato delle angosce che riguardano il futuro.
Ecco in che cosa la ricerca spirituale è
spesso un impedimento: essa è satura delle nostre attese, dei nostri
fantasmi, e delle nostre impazienze. Essa progetta in un ipotetico futuro una
meraviglia di cui ogni istante sarebbe privo.
Non immagina la possibilità che la meraviglia sia già presente, qui, subito e che la nostra pena
spirituale sia, in realtà, il paravento principale quanto al vero oggetto della
ricerca. L’aspirazione spirituale originale, prima che si intorbidasse
con i fantasmi dell’ego spirituale, non ci parlava né di diventare, né di
migliorare. Ci mormorava intimamente la promessa dell’abbandono,
dell’accoglienza incondizionata ad un istante già pieno. E’ un po’ come se
aveste incominciato questa lettura sperando di trovare la luce alla fine e vi
proponessi di gioire di ogni parola come una fine, o
una luce, in sé, come se vi dicessi che la fine del testo non aggiungerà più
delle parole stesse e lo spazio tra di loro, nemmeno lo spazio prima di tutte
queste parole.
La memorizzazione di tutte le parole per accedere
alla comprensione tanto attesa corrisponde all’idea del lavoro, che bisogna
fare per andare da qualche parte, è quel che si chiama la corsa spirituale.
L’accoglienza di ogni parola, così
come si presenta, al ritmo tranquillo di una lettura senza attesa, corrisponde
all’abbandono delle velleità del ricercatore spirituale, quando quest’ultimo,
alla fine della corsa, permette alla verità dell’istante di manifestarsi
liberamente.
La grazia (che non ha niente a che fare con lo sviluppo
personale) è tutta intera nell’istante più comune, nello spazio apparentemente,
nello spazio tra due parole, nello spazio tra due
stage e due meditazioni, nello spazio apparentemente meno gradevole tra due
estasi.
E’ perché il ricercatore è penetrato negligentemente
nell’ambito più promettente che questa realtà gli sfugge sempre, perfino nelle
estasi. Investe tutte le sue speranze nello sforzo, un antico condizionamento
che non è mai stato equilibrato da altre prospettive nella nostra educazione,
per accedere alla meraviglia.
Ma questa attitudine non è che
l’espressione di una precipitazione cieca, di un comportamento atavico.
Ed
è diventato necessario rilassare la pressione.
Quel rilassamento non sarebbe lasciarsi andare, non si tratta di un
raso terra che implica ancora più incoscienza, ma si tratta di una apertura
totale a ciò che è, ad ogni istante, qui, in sé, fuori di sé e dunque una
coscienza di ogni cosa, senza freni, acuta, perché liberata dalle nubi della
ricerca.
L’identificazione alla meccanica dell’ego si dissolve in
quel rilassamento (che porta quel nome in opposizione
alla tensione formidabile della ricerca, è una vigilanza accresciuta sebbene
spontanea).
Mentre nello sforzo della corsa spirituale verso il podio,
l’ego si era ornato di promesse mirabolanti della ricerca per fuggire verso un
altrove e un altro diverso da me, nel momento della improvvisa
caduta del corridore, si rivela una possibilità nascosta dalla tensione della
corsa: la disponibilità infinita che appare nella scomparsa del miraggio della
ricerca.
L’ego, che non può esistere che nel progetto e nel divenire,
si estingue e si illumina nell’istante della
liberazione, che è immortale perché vivente ad ogni altro istante, o più
esattamente, lo stesso istante eterno ormai liberato dal filtro lineare del
tempo.
In quel senso è possibile parlare di un miglioramento, ma è
fortuito, non creato, non anticipato e non si presenta come un raggiungimento.
La confusione viene dal constatare che sembra esserci un
progresso nel risveglio spirituale e il ricercatore in
attesa, accecato da quella da quella sete, nasconde che la rivelazione si gioca
su un altro piano, più fondamentale.
Ed è sicuramente su quel piano che abbiamo sentito il
mormorio all’origine della nostra ricerca, in quell’Abbandono che si rivela la
Dolce Natura dell’Essere, in quel non sforzo radicale dove sorge la gioia
semplice d’essere vivi, rinnovabile all’infinito… Fin
tanto che la pressione della ricerca e tutte le anticipazioni che le sono
attaccate non vengano a murarla viva.
Ecco il più grande servizio che
possiamo rendere a noi stessi e all’umanità.
istenqs: qui finisce finalmente la nostra ricerca spirituale.