3ème Millénaire n.70 – Traduzione
della dr.ssa Luciana Scalabrini
Qualsiasi sia il rapporto con la
sofferenza, la domanda che solleva il ricercatore spirituale è sempre
d’attualità.
Che gli sia proposto di elevarsi al di sopra, che si senta
sommerso o capace di andare al di là, possiamo sempre
considerare che la questione non è stata trattata, che nessuna risposta,
alla fine della ricerca, ha potuto essere trovata.
Infatti la sofferenza è il centro della ricerca spirituale. Il
desiderio di disfarsene o di darle un senso, che è la
stessa cosa, è la preoccupazione principale del ricercatore. I sacerdoti dello sviluppo
personale l’hanno capito bene, loro che avanzano la possibilità di un benessere
che essi promettono più o meno stabile, permanente.
Non possiamo dubitare della presenza insistente del
desiderio di vivere in pace nel corpo e nella mente. Ma occorre che ci
rendiamo conto che non cerchiamo nel posto giusto.
Per scoprire il vero luogo della pace, dobbiamo incontrare
quel desiderio di vivere in pace per sentire il messaggio che ci trasmette,
perché quel bisogno è l’eco di una realtà profonda, il ricordo diffuso di una
pace dimenticata, di cui non sentiamo da gran tempo che i profumi.
Chiediamo la cessazione di ogni
sofferenza, di ogni tormento, e siamo pronti a pagare caro per questo.
Cerchiamo mezzi a volte sofisticati per cancellare il
dolore e certi pensano che la scienza potrebbe arrivarci completamente. Ma la volontà di anestetizzare il dolore è l’espressione di
un rifiuto raramente rimesso in questione. Sembriamo nascere al mondo con un
postulato che afferma che dobbiamo lottare contro un nemico invincibile. E, se la scienza ci fornisce le pillole miracolose, dobbiamo
riconoscere che la nostra lotta è irrisoria. Il dolore ritorna infallibilmente.
Ma, malgrado questa constatazione, continua a manifestarsi il
rifiuto. Ecco la relazione immatura che l’umanità ha con la natura!
L’idea di un’accettazione della sofferenza, che forse vedete profilarsi nel mio discorso, può apparire rivoltante,
ma nell’energia che si risveglia davanti a una tale prospettiva si trova la
chiave che permette di risolvere la questione.
Il dolore fisico ci insegna che
subiamo una sensazione a misura della nostra soglia di tolleranza. Ora, è
evidente che la soglia non è nel dolore, ma in chi lo vive. Non abbiamo tutti le stesse reazioni al dolore. La soglia di tolleranza
è da mettere in parallelo con il nostro rifiuto. La sofferenza è un rifiuto
aggiunto a una sensazione naturale. Più il rifiuto è grande, più la sofferenza è grande.
Ma che ne è della sensazione? Ha una intensità propria e universale? E’ neutra? E’ possibile
vivere una sensazione senza farne una sofferenza?
E
se trasferiamo queste questioni alle sensazioni mentali, che sono le ansie e i
tormenti, è possibile vivere un pensiero senza farne una sofferenza?
Questo sguardo ci conduce progressivamente ad affrontare la
questione sotto un’angolazione nuova: ci liberiamo
dalla sofferenza eliminando la sensazione e il pensiero, o la liberazione è
indipendente dai movimenti del corpo e della mente?
Possiamo già vedere che il rifiuto proviene dalla credenza
diffusa che possiamo dire “no”. E nello stesso modo in cui diciamo no a un avvenimento imprevisto, diciamo no a una sensazione o una
prospettiva mentale che rifiutiamo. La sofferenza è proporzionale al nostro
rifiuto di un avvenimento, di una sensazione, di una parola. Certo, non si
tratta di negare la realtà della sensazione o l’impatto di un avvenimento o di una
parola, o la necessità di una azione di ritorno, ma di esplorare con coraggio
la vera causa della nostra sofferenza.
Bisogna vederla senza disfattismo: i movimenti, le esigenze
del corpo e della mente non si comandano e la credenza diffusa, perfino nei
circoli spirituali, che arriveremo a controllarli è
una illusione. La nostra libertà non dipende da un controllo qualunque,
certamente non dei movimenti naturali.
Da sempre la saggezza immortale ci insegna,
con le testimonianze o con l’esempio, che la pace non dipende dai movimenti del
corpo e della mente. I fabbricanti di pillole e di sogni l’hanno nascosto. E,
affrontando questo argomento con l’osservazione della
nostra relazione con la natura, potremo forse considerare di disfarci delle
credenze usuali, che tendono a liberarci dai movimenti naturali del corpo e
della mente, per trovare la pace.
“Considerare” significa che non vi resistiamo, che il
rifiuto non si applica a quello sguardo nuovo e che siamo disposti a integrarlo, o, più esattamente, a verificare che è
possibile vivere in quel modo. Di nuovo, non si tratta di discutere la validità puntuale
di un procedimento chimico per sedare i grandi dolori, non è questo l’oggetto
della nostra ricerca. Stiamo affrontando un argomento delicato con un occhio
nuovo e temerario, accettando interiormente che forse abbiamo
fatto una falsa strada e che esiste in sé una possibilità da scoprire,
una natura profonda che non aspetta che le cose del corpo e della mente
migliorino necessariamente per conoscere la pace, per essere la pace.
La promessa di una vita senza sensazioni sgradevoli, senza
ansie, mantiene la fuga e la sofferenza: il rifiuto è nell’attesa che la promessa si
realizzi. E’ così che viviamo da lunghi anni, senza veramente accogliere ciò
che accade, tentando di evitare ciò che ci appare come un errore, chiusi a
tutto ciò che non produce la completa sensazione del benessere. Il consumo di
droghe e di medicine si inscrive naturalmente in
quella ricerca.
Non possiamo che sentire una profonda compassione davanti a
questo smarrimento collettivo e alla sofferenza che produce e perpetua.
Cosa succederebbe se, invece di dimenticare quella intuizione, ci proponessimo di considerare seriamente
uno sguardo nuovo sulla natura umana? Rispondo affermando che compiremmo uno
dei primi passi verso il nostro risveglio spirituale. Infatti
possiamo risvegliarci alla nostra vera natura, dal momento che lasciamo la focalizzazione sul corpo e il
pensiero come luogo della nostra sofferenza e del nostro piacere.
La nostra esistenza precede ogni sensazione e ogni pensiero. Noi siamo il luogo della pace addirittura
prima di pensarci, prima di associarci ad una sensazione.
Noi siamo, io sono, prima e dopo
ogni avvenimento, ogni sensazione, ogni pensiero.
Questo essere che io sono è quello che può accogliere tutte
quelle cose senza necessariamene attaccarvisi, colui che
sopravviverà immancabilmente ad ogni sensazione, ogni avvenimento, ogni
pensiero. Questo qui non
si compromette e non soffre che quando dimentica la sua vera natura, cercandosi
tra la manifestazioni transitorie dell’incarnazione. Per “cercarsi” intendiamo
cercare di trovare la pace all’esterno della nostra vera natura, all’occorrenza
in un mondo che vorremmo senza movimento, senza quella
rivoltante alternanza di dolore e di piacere.
Non possiamo più illuderci oggi sulla realtà di quella
ricerca della pace fuori di noi. Considerare oggi che
è possibile accogliere ogni avvenimento, ogni sensazione e ogni pensiero come
dei movimenti che non ci appartengono come propri, è
un ricordarsi della nostra vera natura e un assaggio della vita Divina, del
risveglio spirituale.