Di Eŕc Baret:

"Le mani vuote"

 

3ème Millénarie n.74 - Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini

 

 Eric Baret è un autore contemporaneo, uno dei più importanti interpreti del tantrismo del Kashmir, ha pubblicato:
- Le crodiles ne pensent pas! Reflex du tantrisme cachemirien, Ed. de Mortagne, 1994
- L'eau ne coule pas, Ed du Reliè, 1995
- Le yoga de la non-dualité, Ed de Mortagne, 1996
- Le sacre du dragon vert, Ed. Lattès, 1999
- Le seul désir dans la noudité del Tantras, Ed. Trait d'Union, 2002

L'epoca attuale dove l'essenza della filosofia si è perduta sotto forme d'umanesimo di ragionamento e di riflessione moralizzante senza nessuna prospettiva metafisica, fa talvolta sorgere delle nozioni di sforzo, di lasciar andare e di lavoro su di sé.
Queste immagini, ereditate da una riflessione mentale, sono basate sull'immaginario di una persona indipendente,che potrebbe lasciar andare o fare uno sforzo. Noi non siamo separati dal cosmo e incondizionati, per pretendere di avere una qualsiasi autonomia.
Questo concetto presuppone anche uno scopo da perseguire. Il famoso lavoro su di sé, soprattutto di moda in ambito pseudospirituale, è egualmente basato su questi concetti tipici del nostro mondo in decadenza: disprezzo moralistico delle proprie debolezze in un primo tempo, poi, autosoddisfazione, quando l'individuo ha assorbito le idee dalla sua "scuola spirituale".
Questo "lavoro" si esprime in modo esplicito nella fantasia del superuomo, di diventare qualcuno, o di avvicinarsi al divino.
Il prolungamento politico più conseguente è stato il nazionalsocialismo e il mito delle SS, che anche lui voleva purificarsi, diventare più questo o meno quello.
Ogni prospettiva personale non può che essere una caricatura che sfocia politicamente in una società dittatoriale e in modo metafisico alle aberrazioni che incontriamo ai nostri giorni: guru realizzati, risvegliati che si credono direttamente l'incarnazione della verità, che parlano in prima persona nel nome di "Io Sono".
Queste caricature sempre più frequenti, a lungo confinate nell'America del Nord, cominciano a sbarcare sulle coste della vecchia Europa. Ormai il nostro paese non sfugge più a queste espressioni che affliggono "Siete andati ad ascoltare l'ultimo illuminato?"
Si potrebbe sottolineare come la cattiva comprensione dello Zen, trasformazione verso la mediocrità del Chan cinese, ha cooperato a volgarizzare in modo opposto al suo vero senso la nozione di lasciar andare. Infatti molto spesso nel Rinzai o nel Soto zen, si tenta il lasciar andare, si tenta di non tentare.
Zazen, posizione della stessa intenzione, sedicente mezzo per una non-intenzione, ne è la caricatura più evidente. Che distanza dall'insegnamento originale di Chen Honai, Liuzi, Huaung Po o Huei Neng. Quanta levigazione di pietre per farne uno specchio, di pulizia del viso originale per toglierne la polvere: insulto alla vita e alla creatività senza limite.

Quanti esseri umani, pensando di elevarsi spiritualmente, si sono distrutti, castrati, martirizzati per tentare di non più tentare.
Anche lo yoga, arte suprema, intrinsecamente libera da compimento, dove il concetto di sforzo e di lasciar andare non trovano alcun posto, è stata resa caricaturale da queste fantasie; gli insegnamenti degenerati attuali, presentati come tradizionali sotto la tutela di guru senza riconoscimento e di altre federazioni nazionali mondiali o cosmiche, veicolano queste concettualizzazioni, al punto che per molti "professori di yoga" (sic!) questa arte si riduce, nel migliore dei casi, a un equilibrio tra sforzo e lasciar andare. La tradizione yoga non riconosce alcuna entità personale, alcun divenire, alcun posto né per uno sforzo, né per un lasciar andare.
Per cosa dunque c'è posto? C'è posto per un ascolto, dove l'osservazione non psicologica della percezione si trasporta nell'azione. Non è la visione giusta che crea l'azione giusta, la visione giusta è l'azione giusta. Infatti ogni sensazione corporea ascoltata in modo non intenzionale è istantaneamente espressa sotto forma d'azione. Nella pratica, questo ascolto si sviluppa al punto più alto.

In tutte le arti tradizionali, dalla cerimonia del tè alle arti del combattimento, la nozione di sforzo, di lasciar andare non esiste che nelle fasi preliminari ed esteriori, per calmare un mentale e portare un illusorio senso di sicurezza. Questi balbettamenti esoterici, che sembrano al nostro occidente summe filosofiche, devono essere abbandonate nella comprensione improvvisa. Rapidamente, i passaggi romantici come lo sviluppo del "controllo" della "forza" o della "concentrazione " progressione falsamente rassicurante, appariranno ostacoli anche a ciò che è appena avvertito.
Anche le pratiche come il tiro all'arco giapponese, dove la tecnica sembra appoggiarsi sul lasciar andare, non sono espressioni, in questo modo, che all'inizio dell'apprendimento.
In effetti questa filosofia contiene ancora l'illusione di una entità indipendente. Non c'è nessuno per lasciar andare.
Acquisito chiaramente questo, la pratica si rivela allora sotto tutt'altro aspetto; non è più là per portare o favorire questo lasciar andare , ma diventa espressione di una visione metafisica: che la freccia parta da sola e si pianti nel cuore del centro o che l'arciere sia incapace di afferrare l'arco, tutto questo appare nella vita profonda senza gerarchia né compimento. L'evidenza di un movimento di yoga, di una posizione in un'arte marziale o di un gesto di danza necessita, per il suo compimento luminoso, una totale assenza d'intenzione. Nessun andare, niente posto per un compimento personale, unicamente la celebrazione di ciò che è.
Nella nostra società, le tendenze allo sforzo e al lavoro personale sono sempre più valorizzate. La scuola condivide questa responsabilità con le istituzioni politiche e l'immaginario familiare. Tutti partecipano a questa disinformazione evidente della realtà. Si insegna ai bambini a diventare, a vincere, a realizzarsi, si valorizza lo sforzo personale. I giochi olimpici, o l'arte di sfruttare, per ragioni nazionalistiche, fino alla distruzione discreta ma certa della corporeità degli atleti, sono un meraviglioso simbolo di questa tendenza.
Una società equilibrata non metterebbe l'accento su quello che il bambino dovrebbe essere o dovrebbe diventare, ma su quello che è. Sarebbe all'ascolto delle sue capacità e non di quelle che dovrebbe avere. Da questo ascolto deriverebbe una educazione funzionale. Per delle ragioni elettorali, le nostre società democratiche hanno bisogno di creare delle masse facilmente manipolabili. Esse non possono sicuramente sopportare l'idea di un ascolto interiore, funzionale, che creerebbe esseri liberi da orientamento politico, pronti ad ascoltare veramente le situazioni e ad agire nella direzione della realtà e non in una direzione ideologica.
Tutte queste nozioni di sforzo, d'intenzione, sono le tristi caricature del nostro mondo moderno. E' verosimile che nei decenni a venire, per delle ragioni di mercato, questo movimento che mette l'uomo al centro della vita e non la vita al centro dell'uomo, come insegna la scienza sacra, sarà sempre più sviluppato attraverso la medicina, la biologia, la psicologia e le altre espressioni del mondo capitalista.
Più una società rende stupidi i suoi membri più afferma di esaltare la libertà personale. Non si propone, nei numerosi movimenti religiosi in USA "una relazione personale con Dio"?


Seguono domande e risposte.


D: In ogni gesto c'è volontà, esiste uno stato di non volontà?
R: Volontà vorrebbe dire intenzione, pensare che un movimento porta a qualcosa, lo Yoga non porta a niente. E' per questo che è un'arte, l'arte è gratuita, è quella la sua essenza. La pratica è fatta per la gioia di celebrare la vita. Non può esserci nessuna volontà là dentro. Senza attesa né domanda si esprime la gioia di vivere. Il corpo conosce il movimento giusto. In verità, non c'è mai volontà anche se decidete di alzare un braccio, si potrebbe scientificamente provare che il movimento psicologico di sollevare il braccio è cominciato qualche millesimo di secondo prima della vostra decisione. Ma l'ego con la sua immaginazione malata di voler dirigere, non ha questa sensibilità e immagina di decidere di alzare un braccio. E' il contrario. E' il braccio che si alza e la volontà che segue l'evento.

D: Nella pratica Yoga non c'è la volontà di eseguire l'ordine dell'insegnante?
R: Quando sentite il suo suggerimento, non dovete applicarlo alla lettera, ma ascoltarlo: esso crea in voi una forma di risonanza che s'impone. Ognuno nella sala lo esprimerà con un movimento adatto alla sua sensibilità del momento. E un lavoro interiore. Voi non seguite nessun altro che il vostro ascolto. Nel vostro silenzio d'intenzione, il corpo parla, si muove. Voi siete totalmente all'ascolto di questo fuoco d'artificio. Più la vostra passività è grande, più la ricchezza tattile sta diventando immensa. Ma più c'è intenzione, più la sensazione è frenata da questa attesa.

D: E' dunque la suggestione che crea il corpo?
R: E' la paura. Il corpo è una invenzione della paura. Nella paura ci si vuole trovare, sentirsi. In un momento di gioia, di non intenzione, non c'è un corpo come tensione, difesa o affermazione, ma ascolto disponibile. Generalmente ciò che s'intende per corpo è una massa di tensioni, una paura. Domandate a un bambino o ad un adulto di disegnare il suo corpo e constaterete come sia immaginario; ciò che vedete nello specchio non è che il frammento più esteriore del corpo. Lo Yoga accentua la riscoperta di un corpo avvertito senza rifiuto.

D: Questo vuole dunque dire che in generale noi non viviamo fino a che l'ego prende, o crede di prendere, la decisione? Noi non abbiamo a disposizione che questo breve istante? Il nostro spazio di vita non è dunque ridotto che a quello?
R: E' il contrario, non c'è che questo spazio di vita. Eccezionalmente il movimento egotico si appropria dell'azione. In breve "io corro, io penso", ma sono questi gli istanti di cui mi ricordo. In un momento naturale, non c'è memoria, la situazione muore d'istante in istante. Voi ricordate solo i pochi momenti in cui vi identificate con l'azione e li immaginate permanenti. Senza autore nessuna memoria. E' come un mal di denti, sentite questo male come se fosse senza fine, come se dovesse durare sempre. Questa non appropriazione dell'azione è particolarmente celebrata dal grande Abhinavagupta nel suo commento alla Bhagavad Gita. Quello che si dice qui non esce da un cervello folle, ma non è che la trasformazione, in termini moderni, della scienza tradizionale.

D: E' questo che non riesco a capire o anche a percepire; questo momento che esiste al di fuori dell'ego, al di fuori del fatto che l'ego si appropria.
R: Non potete percepirlo perché non siete là. Quando siete felici, non lo sapete. Quando dite: "sono felice", è finita, voi lo pensate.

D: Allora bisogna morire e nascere continuamente?
R: Basta morire. Quando ballate, non vi dite "io ballo, io ballo…" c'è sensazione, movimento. Se sorge l'appropriazione, la danza s'arresta, voi siete nel pensiero, il corpo perde la sua creatività, diventa memoria. Chi vi guarda può benissimo vedere se siete uno con la danza o se pensate di ballare. Il meccanismo di voler oggettivare questa gioia è molto radicato. Non si può cambiarlo volontariamente, ma diventarne sempre più consapevoli. Quanto sto sempre cercando di volermi appropriare della mia vita. Voglio sempre fare una fotografia. La fotografia è triste. Quando mi rendo conto, ad ogni istante, della ricchezza della vita, non ho più bisogno di fare delle fotografie. La gioia è nell'istante. L'istante dopo, la situazione è finita, morta, non esiste più. La gioia è sempre là, è la sola maniera creativa di vivere. Non c'è niente davanti a me né dietro. Non ho bisogno d'inventarmi una vita, è la paura che crea la carta da visita. La vera carta è la situazione dell'istante. Le caratteristiche compaiono e spariscono senza lasciare tracce psicologiche. Se comprendete questo profondamente, gli psicologi vanno in pensione e le nozioni di sforzo, di lasciar andare e di sviluppo personale ritornano al museo della paura. Respirate un pò; non abbiate paura della vita. Nel vostro ascolto tutto si compie, niente da trattenere né da lasciare.