3ème Millénaire n.
84 - Traduzione
della dr.ssa Luciana Scalabrini
D. Mi sembra che
tutti i comportamenti si integrino e non possano
essere separati dal contesto sociale nel quale si trova il campo della
psicologia. Le persone devono assoggettarsi a norme e valori che sono attorno a
loro. Non è solo che la psicologia definisca un problema come un problema, ma un individuo può essere in conflitto con se
stesso e con gli altri. Il lavoro dello psicologo è aiutarlo a risolvere il suo
dilemma. I miei pazienti non sono, in generale, interessati al risveglio o alla
comprensione del loro sé separato. Non devono essere aiutati a risolvere la
loro depressione, a eliminare l’ansia o a cambiare le
loro abitudini nocive?
S.H.
Riconosciamo di far parte delle costruzioni sociali che ci consentono di
funzionare nella vita, ma ne siamo anche co-creatori.
Le costruzioni sono l’espressione della separazione e
spesso costituiscono la peggiore caratteristica umana. Ciascuno di noi ha un
ruolo in quelle costruzioni. Se giochiamo il nostro
ruolo, sappiamo che viviamo solo in modo relativo.
Nella psicologia,
forse sappiamo che le costruzioni “problema/soluzione”, o malattia
mentale/guarigione, o ogni altra cosa che sia nel
corso dei nostri giorni, sono delle accettazioni di ricoprire un ruolo. Secondo
questo schema, desideriamo aiutare, secondo l’aspetto razionale della nostra
educazione. La persona che è nel ruolo del paziente ha
l’idea di essere ammalata, che ha un problema, o che ha bisogno d’aiuto. Come
psicologi, siamo in mezzo a tutto questo. Non possiamo dire se il fatto di
aiutare crei un problema, o se l’aiuto non è che una risposta relativa a un vero problema.
Cosa succede se
proviamo a non costruire
né a decostruire, ma semplicemente a vedere la situazione come è?
E se rendiamo trasparenti le caratteristiche della situazione a quelli che
portano la costruzione, cioè ai pazienti? Il contatto
con ciascuno di loro e con tutte le costruzioni sociali diventa
una mutua esplorazione, qualsiasi sia il contesto: dottore-paziente,
marito-moglie- figli, ecc.
La sfida di quella indagine è che ci fa uscire dalla sicurezza del
conosciuto, del mondo che accettiamo di sostenere, per andare verso lo
sconosciuto. Dal punto di vista del mentale, che ama sempre la sicurezza anche
quando è falsa, questo può sembrare una delle cose peggiori.
Se il paziente
“psicologico” che viene da voi non ha interesse a questa indagine,
allora siete lasciato con la vostra propria indagine, che rivela le vostre
costruzioni sul paziente e il vostro dilemma esistenziale che è la piena
espressione di ciò che è la vostra vita in questa situazione. Alla fine, l’esplorazione di sé
e la resistenza che ci si mette sono la stessa cosa della mutua esplorazione e
del modo a cui si resiste.
D.
Criticate il modo in cui lavora la psicologia occidentale
nel senso che rafforza le norme
culturali, che definisce
sane.
S.H. La
psicologia è inserita nella cultura. Esiste per ricondurre le persone nel
comune flusso di funzionamento in modo che siano produttive per la società. La
psicologia non riconosce la validità di ciò che non è produttivo.
Nella cultura
dell’India, si riconosce che una parte della popolazione non sarà mai
produttiva, e non è un problema. Ci sono dei sadhu
impegnati in una serie di attività non produttive.
Molti di loro sono molto luminosi. Certi sono nudi, altri
sono come mascherati. Loro fanno semplicemente quello che fanno e non sono giudicati; non gli si manca di rispetto.
In effetti, sono
venerati.
Noi abbiamo lo
stesso tipo di persone nella nostra cultura, o i senza fissa dimora sulla
strada o nelle comunità. Non solo non sono venerati, ma sono visti come pesi
per la società.
I n un certo modo la psicologia è stata costretta da un punto di vista che non
riconosce la possibilità di una crisi spirituale. Come la coscienza evolve a
partire da un mentale che si aggrappa a tutta una serie di concetti verso il
riconoscimento che i concetti non sono che relativi, l’individuo si ritrova a subire
una crisi importante. In un tale momento, tutte le cose sulle quali abbiamo costruito la nostra vita sono abbattute. Ma la
psicologia moderna, in generale, non riconosce quelle crisi come una
possibilità di
movimento positivo della coscienza.
D.
No, è immediatamente definito patologico.
S.H. La nostra società tutta intera cerca
disperatamente di contenere la sua angoscia collettiva. Droghiamo i nostri
studenti con il Ritalin perché si comportino bene a
scuola, droghiamo i lavoratori col Prozac perché non
si deprimano andando al lavoro. E droghiamo noi stessi con la televisione o con
internet per non trovarci faccia a faccia con la stanchezza che abbiamo delle nostre vite. La nostra cultura cerca di
costringere qualcosa che non può essere contenuto, che è il movimento della
coscienza. Per gli psicologi, la risposta più appropriata sarebbe forse di
diventare come gli sciamani, cioè di facilitare questa
trasformazione.
D.
Le persone che vengono da me sono nella sofferenza e nella lotta.
Ho provato a dir loro che non hanno bisogno di fare nulla con le loro emozioni
e i loro pensieri. Descrivo la natura del pensiero.
Per molti l’idea di non fare niente dà molta confusione, mentre altri sembrano
ottenere buoni risultati con questo. Avete un commento?
S.H. Il
primo punto è ciò che il cliente vuole, cioè che contratto c’è tra voi due, e
se potete onorarlo. Se il cliente vuole stare meglio,
ed è tutto, allora in certi casi ricorrere a tecniche o medicinali può essere
nell’ordine delle cose. Se il cliente vuole
“comprendere”, ci sono risorse che potete rendere disponibili perché
l’individuo possa avere delle prospettive. Se il cliente vuole “un cambiamento fondamentale”, allora la risposta è differente.
Non fare niente
concerne il cambiamento fondamentale, e forse un po’ la ricerca di
comprensione. Ciò non concerne necessariamente lo stare meglio o mantenere
l’ordine della propria vita personale. Per voi la questione è vedere ciò che potete o non potete fare per quell’individuo. Non sono
terapeuta, ma raramente posso rispondere a qualcuno esterno con un consiglio
pratico, concreto, per esempio cambiare lavoro, fare esercizi, alimentarsi meno
o è con una prospettiva mistica, di trasformazione che è essenzialmente non
fare niente, e riconoscere che ciò che è visto come personale è solo un
concetto.
C’è naturalmente
un grande spazio intermedio nel quale un individuo si dibatte in questioni
psicologiche chiaramente concettuali, che appaiono come reali.
Non ho ancora
constatato di poter essere utile a qualcuno che si trova in questo stato, se
non suggerendogli di trovare qualcun altro con cui parlare. Per me, in quello
spazio intermedio, possiamo solo modificare, combinare cose che vanno per un
certo periodo, dare dell’aspirina piuttosto che andare alla causa del mal di
testa. Tuttavia, per uno psicologo abile, può esserci una risposta a una tale situazione
che sembra essere una crisi acuta, pur riconoscendo che il lavoro di
trasformazione è ancora lì quando il mal di testa (metaforico) è scomparso.
La questione è
questa: interferire con la crisi e così interferire con la guarigione, oppure,
per ciò che ci interessa, interferire con qualsiasi
cosa, è utile?
D:
Forse una situazione intermedia può essere questa: persone soggette a pensieri
ossessivi possono lottare e resistere. La loro soluzione a quei pensieri che
ritengono inaccettabili è di opporvisi. Portandoli a non fare niente riguardo
ai pensieri, o forse facendo pensare consciamente, quei pensieri si indeboliscono perché non c’è più resistenza. In più,
sembra che molti sintomi si formino come risposta a pensieri, a sentimenti o a impulsi che le persone trovano inaccettabili. Il sé
psicologico crea, o è, un’idea di chi noi siamo.
Tutto ciò che non
collima con la nostra concezione di noi stessi, la nostra descrizione di come supponiamo
di essere, crea un conflitto.
La differenza tra
la descrizione e la realtà si risolve con un rifiuto,
un diniego, ecc. Mi sembra che, se aiutiamo le persone a non fare niente coi
loro pensieri e i loro sentimenti, se permettiamo loro di essere quello che
sono, e apriamo loro la possibilità di sperimentare la realtà nuda della loro
vita senza interpretazione, la maggior parte di quelli che chiamiamo problemi
psicologici dovrebbero chiarirsi.
Comprendere che la
vita è
cambiamento, che i nostri tentativi di
aggrapparci a nozioni di ciò che
dovrebbe essere o che la ripetizione di ricordi passati non può funzionare,
sarebbe utile alla gente. Le persone tendono a vedere i loro problemi come
unici. Se c’è un movimento verso il fatto di vedere che sono problemi umani,
diminuisce la sensazione di isolamento. Ciò che prima
era la causa dell’isolamento, ci lega a tutti. Considerate queste prospettive
una situazione intermedia utile?
S.H. Un
punto interessante è questo: supponiamo che io non faccia niente e mi viene un
pensiero violento e terribile accompagnato da sentimenti forti e un impulso ad
agire. Certo, se non faccio niente, quelle tendenze sono lasciate senza
l’energia sufficiente a manifestarsi e restano pensieri, senza sostanza. Ma la
sensazione di essere sommerso da quegli impulsi, o l’incapacità di agire con
gentilezza o compassione, è generalmente il risultato, con in
più la sensazione di tristezza e di essere diviso.
Forse lo spazio
intermedio ha più a che vedere con la descrizione dei parametri sociali,
orientando l’individuo verso una relazione più spaziosa con i propri pensieri:
non agite sui vostri pensieri di
violenza, perché questo vi porterà a farvi arrestare; controllatevi.
E poi, di quali
pensieri di violenza si tratta?
Che cosa è un pensiero?
Cos’è che vi spinge ad agire su di lui?
Che relazione c’è tra
un pensiero ed un’azione?
Riconoscere la
natura impersonale delle forme pensiero è essenziale. La questione fondamentale
non sono i pensieri o l’apparente compulsione ad
agire, ma piuttosto il narcisismo che costruisce la totalità del quadro in
quanto “me”.
Quella contrazione
trascura il fatto che la trasformazione non è quella
della mia coscienza, ma quella di tutta la coscienza, perché non c’è altra
questione che quella del movimento paura/contrazione nello spazio
coscienza/espansione.
La sfida è
introdurre questo in modo da permettere il cambiamento di prospettiva che va
dal pensiero/me alla coscienza/noi. E’ una sintesi molto critica che si deve
attuare perché la terapia diventi veramente utile.
D.
Sembra che suggeriate utile distinguere tra
pensiero/sentimento e comportamento. Non abbiamo bisogno di fare nulla riguardo
al pensiero/sentimento. Nasce spontaneamente e scompare nello spazio vuoto
della coscienza. Non c’è bisogno di nessun controllo. D’altra parte, i
comportamenti hanno conseguenze per noi stessi e per gli altri. Essere in
collera non è un problema, picchiare qualcuno può
esserlo. In più un sentimento può semplicemente essere partecipe di un pensiero
condizionato disfunzionante che appare e per il quale non
abbiamo necessità di agire. Ma un sentimento può anche mettere
in evidenza qualcosa in questo mondo in cui dobbiamo fare, al quale
dobbiamo rispondere. L’inverno arriva, le mie fragilità sono
antiche. Arriva un pensiero sul pericolo potenziale. Non c’è niente da fare per
i sentimenti. Però forse si può fare qualcosa per
queste fatiche. Potete aggiungere qualcosa riguardo alla costruzione del me?
Con questi termini volete dire che è la nostra idea di un sé, o di una immagine di sé, un concetto? Oppure
è il processo dell’identificazione al pensiero/sentimento in quanto me? Siamo pura coscienza che osserva tutto lo spettacolo, o è la
coscienza che è la coscienza di noi?
S.H. La
qualità di coscienza e di pensiero/sentimento sono aspetti della totalità, come
le due facce di una medaglia.
Il pensiero,
pensandoci, fa una differenziazione sostanziale. La coscienza, con la sua
attenzione a quei due aspetti, li unisce in un insieme (è la sua natura) e fa
una non differenziazione in una realtà unificata. Il senso del me viene
dall’aspetto pensante, che ha sempre bisogno di un soggetto per oggettivare il
mondo.
Generalmente
crediamo di essere quello. Ci teniamo ben afferrati
alla formazione dei nostri pensieri.
Ciò che siamo infatti non è né quel pensiero-me, né pura coscienza
(qualunque cosa sia), ma piuttosto la riduzione dei due aspetti in uno solo, un
po’ come ciò che succede in un’onda/particella in fisica quantica, che è una
sola cosa manifestandosi in due modi.
Secondo questa idea, ciò che siamo non è né A né B, ma AB. AB è ciò che è prima o dopo essere stato differenziato.
Questa totale
superiorità, che include i due aspetti, ma che non è identificata né all’uno né
all’altro, è ciò che noi siamo in realtà.
D. Ho fatto esperienza
di una depressione severa, d’ansia, per la maggior parte della mia vita. Ho
presto capito che gli psichiatri e i terapeuti non
erano in grado di aiutarmi (almeno quelli che ho visto) e ho cominciato a
cercare e a leggere io stesso. I libri di sviluppo personale mi hanno portato
verso i libri “new age” che mi hanno condotto ad anni
di pratica spirituale seria. Ho realizzato che con
tutto il mio “sapere” cose spirituali
non stavo meglio di prima. Perciò ho lasciato perdere.
Poi ho cominciato a vedere che la parte di me che avevo sempre pensato essere,
si smantellava e ho veramente avuto paura! Sono uscito
da questo di nuovo. Da allora, sono in conflitto tra ritornare in questo stato
e avere paura di rischiare il me per il Sé.
S.H. La questione è quella della vostra relazione
con le esperienze che avete. Se si mette su queste esperienze l’etichetta
depressione, viene con questa nozione tutto un insieme di concetti che la
rinforzano. Non esiste depressione senza costruzione sociale, anche se senza di
lei, resta ancora qualche cosa, un fenomeno. Quella costruzione diventa sempre
più complicata da capire, ma l’esperienza di base che deve essere penetrata, qualsiasi
sia, è sempre lì. Voi avete compreso tutto questo, ma siete
andato in un’altra direzione. Ma quest’ultima è
veramente differente? Il mondo della psicologia è stato rimpiazzato dalla
spiritualità, il medico
dello psichismo è stato
rimpiazzato dal guru? Là dove
il medico non arriva ad aggiustare i nostri problemi, andiamo a
cercare un insegnante spirituale per aiutarci?
Questo ci
riconduce alla domanda di prima: che relazione avete
con la vostra esperienza?
Se
consiste nel cambiare la vostra esperienza in qualcosa d’altro, anche se andare
dal me al Sé (qualunque cosa sia!), il movimento è ancora quello
dell’insoddisfazione, dell’agitazione, della ricerca dello star meglio.
Quel movimento è
una creazione del tempo, un processo. Nel tempo non può esserci che proiezione
del temporale, non della realtà. La proiezione di uno stato trascendentale è una
fuga dalla realtà, un movimento che cerca di sfuggire ciò che è sentito, lo
scoramento, il dolore.
Nel mondo del
pensiero, la luce è una creazione della notte.
Se la relazione con
l’esperienza è di cambiare questa, suggerirei di lavorare al tempo stesso con
degli psicologi, dei medici e degli insegnanti spirituali con una certa
integrità. In questo caso, ci sono delle cose di base che potreste fare: il
digiuno, degli esercizi, del sole, coltivare i legami di amicizia,
fare del volontariato, ecc.
Il problema con la
ricerca della felicità, è che dovete vivere nell’assenza di felicità per
cercare la felicità. Quando
trovate la felicità, essa si rovina con la paura di perderla. Ma la felicità, è quello il problema?
Un altro tipo di
relazione con l’esperienza arriva quando non siamo più interessati, per un motivo o per
l’altro, a cambiare l’esperienza, ma ci interessa solo la sua realtà. Non è
veramente una relazione con l’esperienza, e non è nemmeno veramente
un’esperienza. E’ ciò che è
ogni fenomeno, senza interpretazione di un me concettuale e senza
volerlo cambiare. Possiamo investigare la natura della vita in questo mondo,
possiamo anche investigare modificando la qualità di ciò che accade. Ma l’idea di stare meglio in quella relazione con
l’esperienza non è che una semplice idea.
In realtà, non c’è
Sé, o me, o felicità o assenza di felicità, o niente altro
dove si possa entrare o uscire. Perché voler
sperimentare solo una parte dell’universo, mentre la totalità è disponibile,
libera e presente? Voi e io, noi ci troviamo lì tutto
il tempo, perché in effetti non c’è un altro posto dove trovarci.
Ma non sapete già
tutto questo?
D: Se il me
psicologico è la sorgente dei nostri errori, sia interiori che esteriori, e non
c’è niente che possiamo fare per cambiare questo, per trascenderlo, o
liberarcene, allora come si può giungere alla libertà? O
la libertà non esiste veramente, salvo come idea creata dal pensiero che cerca
una soluzione?
S. H.
Cosa saremmo senza i nostri problemi?
D.
Certi insegnanti parlano dell’ego come di una via piuttosto
che come una patologia. Voi dite
che l’ego è davvero
patologico?
S.H. No.
Dite che la ricerca di risolvere la questione dell’ego è patologica. Io ho
detto che la ricerca di fare qualsiasi cosa con l’ego è patologica. E’ da lì
che viene il non fare niente. Possiamo osservare semplicemente ciò che è senza
cercare di aggiustare qualcosa? La nostra relazione con quello che si chiama
ego è allora modificata? Perché, una volta che ho un ego e provo a
regolare quel problema, non faccio che accumulare mucchi di concetti uno
sull’altro sopra qualcosa di cui non sono nemmeno sicuro che esista.
Cosa succede se faccio
il contrario? Se non faccio niente su questa cosa che chiamo
ego? Diciamo per esempio che sono un tipo arrogante, angosciato, non arrivo a
comunicare con gli altri, sono sempre teso. Posso provare a risolverlo con un
insieme di tecniche o posso non fare niente. E se
tutto questo costituisce la totalità dell’universo, la mia angoscia, la mia
tensione, la mia mancanza di comunicazione? Cosa
succede allora? Se è tutto quello che c’è? Lo spazio
in cui posso lavorare con la mia propria esperienza
fondamentalmente cambia?
D.
Il modo in cui descrivete la cosa
mi fa paura.
S.H. E’
terrificante! Non possiamo trovare un cammino per fuggire. Ora, il mondo nella
sua totalità, come è orientato nei modi di
funzionamento, traccia un cammino per fuggire. Non è fatto perché abbiamo una
relazione con noi stessi, per metterci di fronte a noi stessi, e per questo
crea il tempo, crea un percorso, dei processi. Se
partecipo a un ritiro, a un seminario, o se leggo un
altro libro, allora sarò capace di trovare una soluzione a tutto. Sicuramente
non funziona. Non facciamo che allontanarci sempre più dalla verità.
Cosa succede se il
mondo non è ciò che noi siamo? Se io non sono che
collera e non c’è via d’uscita? Ho allora un universo differente da esplorare,
vero? Ora esploro ciò che è davvero la collera. E scoprirò che essa non
corrisponde alla descrizione che me ne avevano fatto
gli psichiatri o a quello che ne aveva detto il tale insegnante. E’ qualcosa
che arriva, che ha certe caratteristiche. Questo si muove da
qualche parte del mio corpo, dà impulso a certi tipi di sentimenti e di
memorie. Tutto ciò esiste ora, solo ora. In questo istante
siamo fuori dal tempo, fuori dallo spazio. Siamo in un universo in
trasformazione. In quel momento la collera diventa energia. Solo quando
facciamo esplodere quel momento riportandolo nel tempo e nei concetti
che diventa collera. Poi quella si installa dentro di
noi e diventa permanente.
D.
In altri termini, quando la sperimentiamo nell’istante, non
è un problema.
S.H. Non è
qualcosa. Ma se è un concetto, avete un problema da
risolvere.
D.
E risolvere il problema non è veramente
risolverlo. Infatti questo crea il problema che sembra
dover essere risolto.
S.H. Esattamente. E’ il mondo di
Alice nel paese delle Meraviglie nella sua totalità che la psicologia e
la spiritualità hanno creato.