3ème Millenarie n. 65 – Traduzione di
Luciana Scalabrini – seconda parte
Il ruolo della sofferenza.
Questa può continuare a lungo. Dopodiché
vedrò la situazione: o sopporterò uno stress indicibile per la mole di lavoro
impossibile di cui dovrò caricarmi, o mi ritirerò completamente
nell’immaginazione fino a diventare pazzo.
Allora, per stabilizzare la situazione
cominciamo a maturare. La maturità significa per me che riconosciamo di
non potere rivendicare d’essere il centro del mondo, indipendentemente dalla
nostra sensazione di essere o no il centro del mondo. Accettiamo perciò un
compromesso incorporando nella nostra vita il dolore d’essere esclusi dal
mondo.
Questo dolore si manifesta nella
depressione, l’ansia, la collera, il furore ecc. La nostra vita consiste nel
mantenere e sopportare un certo livello di sofferenza. Manteniamo questo
livello facendo della sofferenza una parte della sensazione di sé.
Con il tempo, essendo la sofferenza una
sensazione molto più forte delle altre, diventa il modo principale attraverso
cui accentuiamo la sensazione di sé. Oggi siamo chiusi nella sofferenza. Per
sbarazzarcene, dobbiamo lasciar andare la sensazione di sé, ma in questo caso
dovremo soffrire. E’ il classico cerchio vizioso, non c’è modo d’uscirne.
Gurdjieff diceva che l’ultima cosa che la gente abbandona è la sofferenza.
Quello che diremo aiuta a capire perché.
Mi rendo conto che le mie parole
semplificano al massimo i numerosi aspetti della condizione umana. Perciò possono
sembrare un pò ciniche. Non ho intenzione di ignorare le diverse implicazioni
di ciò che significa essere umano o essere cinico, una sorta di masochismo
spirituale. Vorrei solo tracciare uno schema generale per affrontare la nostra
questione.
Gli errori commessi nella pratica.
Perché praticare? All’inizio, speriamo di
avere di nuovo l’impressione di controllare la nostra vita, cioè di accentuare
questa impressione, ma senza lo stress e la sofferenza del passato. Speriamo di
diventare capaci, come direbbe M.Eliade, d’essere il centro del mondo senza
sforzo, speriamo di tornare in Paradiso. Poi ci danno un esercizio, come
seguire il nostro respiro. Una grande importanza è data al verbo “seguire”.
Diciamo ai principianti: “Ci sono molti errori che farete: il primo sarà
provare a controllare il respiro, il secondo è osservare la respirazione”. Il
primo errore, voler controllare, si fa quando si comincia la pratica con la
speranza che ci aiuterà a ritornare in Paradiso, cioè a ritrovare la sensazione
di controllare senza sforzo. Il secondo, osservare semplicemente la
respirazione, ci permette di astrarci dal dolore dell’esistenza. E’ un pò come
quando si guarda un film troppo violento. Diminuiamo la nostra identificazione
con ciò che succede dicendoci: “non è che un film”. Nello stesso modo ci
ritiriamo dalla vita, ci teniamo lontano, al di sopra delle questioni
dell’esistenza, dicendoci che non è che un sogno o un’illusione… Molti
cosiddetti maestri lo fanno. In più si commette un altro errore differente: invece
di seguire la respirazione, si segue l’idea di seguire la respirazione. Si
sogna o si immagina di praticare.
Se i primi due sono errori di “lavoro”
quest’ ultimo è un errore d’ “immaginazione”. Spesso le persone amano l’idea
della visualizzazione, come sentire una corrente d’amore, di pace, di andare e
venire. Tutto ciò non fa che accrescere l’attività dell’immaginazione e la
pratica è una perdita di tempo, o peggio ancora incoraggia a ritirarsi
nell’immaginazione.
La pratica è come una battaglia.
Ma ecco, ci dicono di seguire la nostra
respirazione. Perché questa insistenza sul seguire la respirazione, perché
insistere sul farlo senza scopo né aspettative? Perché possiamo lasciare
andare la sensazione di controllare. Si può dire così: vivere per un istante
senza la sensazione di sé. Significa che la pratica va nella direzione opposta
ai nostri desideri naturali. Se seguiamo davvero la nostra respirazione e ci si
dice sempre che è la direzione in cui andare, allora dobbiamo abbandonare la
sensazione di avere il controllo. “Questo” respira, come “questo” cammina,
parla, mangia ecc. E però vogliamo continuare ad avere la sensazione di
controllare. S’ingaggia una lotta tra il nostro desiderio di avere il controllo
e quello di lasciar andare la nostra sofferenza. Più grande è la nostra fede
nella possibilità di un controllo senza la sensazione d’avere il controllo,
situazione in cui io sono lo strumento e non l’autore, più
facile sarà la pratica. E’ qui che l’insegnamento diventa importante. Ci si
dice che “Quello” è sotto controllo. I cristiani lo chiamano Dio, i buddisti la
natura di Buddha, i vedantici il Sé o l’“Io sono”. Qualunque sia il suo nome, è
al di là di essere qualcosa, al di là dell’essere o non essere, e perciò al di
là del bisogno della sensazione di sé.
Quando si lavora su un koan come: “com’è il mio viso prima della nascita dei miei
genitori? (Chi sono io?)”, si lavora per permettere a “Quello” di avere il
controllo senza il bisogno della sensazione di avere il controllo,
d’intervenire. Devo dire che la parola “Quello” è utile qui solo come
procedimento grammaticale. Non c’è “Quello”, come diceva il sesto patriarca Zen Hui Meng: “All’inizio, non c’era nulla”
Molti cristiani lavorano con me sul koan “sia fatta la tua volontà”.
All’inizio per molti Dio, la natura di Buddha ecc, sono sinonimi di “io” e la pratica prosegue lungo
l’antico modo d’essere. In realtà, “sia fatta la tua volontà”, deve essere
interpretata come “la mia volontà deve essere fatta”. E di tanto in tanto, se
la persona è sincera, affiora una certa verità. Se possiamo lasciare esprimere
questa verità nell’istante, dirà: “non è necessario che controlli il fatto di
controllare” oppure “è giusto per Dio, la natura di Buddha ecc. “avere il
controllo”.
Ma è una lotta. Appaiono
sempre dei pensieri per dissipare la tensione che arriva durante la lotta.
Spesso si è così persi in questi pensieri che ci si scoraggia e ci si domanda
se vale la pena di fare questo sforzo. Inoltre, quando si “progredisce” nella
pratica, si diventa più ansiosi, più depressi, più collerici o più tesi. E’
evidente, dal momento che si realizza che progredire nella pratica significa
rinunciare sempre di più alla sensazione di avere il controllo. Queste tensioni e pensieri negativi appaiono allora
nello sforzo di ristabilire la
sensazione di sé. Si comincia a rimettersi in discussione davvero: “più
pratico, più è viva, a un certo livello, la mia sofferenza”.
Non sorprende allora che la
percentuale di rinnovamento dei praticanti sia molto, molto importante. Ho
parlato a migliaia di persone e migliaia hanno iniziato un pratica. Ma al
centro Zen di Montréal non abbiamo che duecento membri al massimo, e, tra loro
almeno la metà non ci sarà entro un anno, e, tra quelli che resteranno,
un’altra metà ci avrà lasciato tra cinque anni.
Sofferenza, sofferenza.
Però, lontani dallo
scoraggiamento, questa constatazione è rassicurante, perché lascia affiorare
una autenticità nella nostra azione. E’ triste veder partire queste persone
mentre soffrono. Ci vorrebbe un mezzo per dare loro “solo la speranza, o la
disperazione sta nella scelta tra il rogo e il rogo, d’essere salvati dal fuoco
con il fuoco” come scrive T.S. Eliot, o ancora “se sapeste come soffrire,
avreste il potere di non soffrire” come è detto nell’Inno di Gesù apocrifo.
Ma se si può parlare molto,
non si può fare molto per l’altro: si può portare il cavallo all’abbeveratoio,
ma non si può farlo bere. Per salvare la vostra vita, dovete perderla.
Significa che dovete perdere la sensazione di voi stessi e l’impressione di
controllare. Ritornando alla respirazione, senza lamentarsi, senza protestare,
senza identificarsi alla sconfitta o alla riuscita, si perde progressivamente
il controllo e si permette al “Vero Sé” i manifestarsi. E’ una lotta che si
deve condurre senza giudizi, senza la sensazione di andare da qualche parte.
Giovanni della Croce diceva “non sperate perché la speranza sarebbe sperare
nella cosa sbagliata”. Si potrebbe dire:” non aspettate qualcosa, perché
aspettereste la cosa sbagliata”. Una delle cose migliori per aiutarsi è di
lavorare con un maestro autentico. Se non ne conoscete, leggete dei libri,
andate a conferenze, che rinnoveranno la fede in “Quello”, in Dio, in Buddha.
Un’altra via è di lavorare con un gruppo, come partecipare a un ritiro, dove si
è obbligati ad affrontare se stessi,ad affrontare l’immaginazione e le sue
conseguenze. Che la pratica sia cristiana, buddista, sufi o indù, una vera
pratica deve essere molto dura, cercare un insegnamento o un insegnante che
faccia il lavoro per voi o che vi lasci credere che potete salire in Paradiso
facilmente, è perdere tempo prezioso.
Allora perché praticare?
Le persone che restano davvero
sulla via, in particolare quelle che “sentono” la loro vera natura e che
prendono coscienza della sicurezza, dell’amore e della libertà meravigliosa che
porta l’apertura a ciò che è, non hanno alcun dubbio. Anche se paradossalmente avessero grande difficoltà
a dir quello che hanno conquistato grazie alla loro pratica. Quando siete
malato, desiderate molto sentirvi meglio, ma quando state bene, seguite il
vostro cammino. Non state a dire:”sono felice, non sono più ammalato!” Potete
farlo per un momento, ma presto o tardi, lasciate andare tutto questo. Il
Maestro Zen Dogen diceva che una persona risvegliata non sa di esserlo. Qual è
il prezzo? Lasciatemi citare Eliot di nuovo.
Diceva che è “una condizione di semplicità completa. Costando meno di
niente”