Jean Bouchart d’Orval
L’Inno
delle Origini – seconda parte
3ème Millénarie n. 43 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini
L’Inno delle Origini e dunque anche l’Inno della Realtà, vogliono riferirsi a quello che è ora. Trovano la
porta del legame tra il non essere e l’Essere, tra l’Uno e tutto ciò che evolve nel divenire. Ci si dice che i
visionari hanno scoperto questo legame e che la loro corda si stende in orizzontale,e ciò significa, tra il non-
ssere e essere: “In basso era l’istinto, in alto la Grazia”; questa frase corta ma potente rivela l’intuizione
profonda del visionario sul meccanismo della creazione dell’universo, ma anche su quello della liberazione
dell’uomo.
L’universo è Pura Coscienza, e attraverso i
meccanismi di percezione di questo universo, in particolare il sistema nervoso
di un essere umano, la sua vera natura brilla, essendo ricoperta
dall’impressione illusoria di esistere in quanto persona, come un’entità
separata dal Tutto. Non possiamo far sparire questo strato di ignoranza se
tendiamo a uno scopo, perché tutto ciò a cui possiamo tendere è ancora “qualche
cosa” e non può essere l’Uno. Il solo modo consiste nell’osservare che noi
siamo già questo Uno, cioè metterci ad agire come l’Uno. Non ci sono cammini
verso ciò che già siamo! Non c’è che vedere e vivere di conseguenza. Agire
senza intenzione personale, essere staccato dai frutti dell’azione, meditare
sulla nostra vera natura, tutto questo fa riferimento all’essenza di una entità
personale; lì è non solo il cuore, ma la totalità della spiritualità. E’ il
messaggio fondamentale delle Upanisad,
della Bhagavad Gita, degli Yoga Sutra di Patanjali, dell’Advaita Vedanta, dell’insegnamento di Budda e di tutti i grandi testi
spirituali autentici, non solo dell’India, ma della terra intera.
Questa è la stessa essenza dell’Inno delle
Origini: il dono, il sacrificio, la grazia. Il Veda dà un’importanza straordinaria al sacrificio, all’offerta (Yagya). La nostra tradizione
giudaico-cristiana anche vi si riferisce abbondantemente: la nozione di offerta
ritorna spesso presso i Patriarchi e nella vita del Cristo. Nella formulazione
vedica è spesso espressa con rito sacrificale, oblazioni, formule, incantesimi
ecc., come in tutte le religioni, ma tutto questo ha la sua origine
nell’essenza dell’offerta. E’ così che il rito di celebrazione eucaristica
della chiesa cattolica romana è ancora oggi fondato sulla realtà dell’offerta.
Il Veda
ci mostra qualcosa di più profondo di quello che hanno potuto vedere gli
eruditi che l’hanno prima presentato, tradotto e commentato. Gli “esperti”
universitari vi hanno visto soprattutto dei riti a divinità diverse, che
rappresentano per la maggior parte forze della natura. Si è presto concluso
riferendosi ad una sorta di religione primitiva e “politeista”. Fino a che non
si accede all’esperienza diretta di “questo Uno”, il Veda non rivela il suo segreto. Quando si conosce la natura umana
non è difficile credere che ciò che doveva essere all’origine dei riti di
celebrazione di “questo Uno” è effettivamente diventato, generazione dopo
generazione, un insieme di riti piuttosto vuoti e un mezzo di dominio per la
casta dei preti, i bramini. E’ ciò che ha portato al ritorno ad un’autentica
spiritualità dal Budda e da numerosi altri riformatori all’origine del Vedanta. Budda è venuto a ristabilire la
verità originale del Veda, quella
stessa che i preti arroganti pretendevano di celebrare con una spiritualità
degenerata. Gesù è venuto a ristabilire la stessa verità dell’originale
insegnamento dei patriarchi e di Mosè. La degenerazione delle civilizzazioni
tradizionali comincia sempre con la reificazione del sacrificio, con la
cristallizzazione e la banalizzazione dei riti e dei concetti. Molto spesso
questo ha coinciso con il passaggio da una tradizione orale ad una tradizione
scritta, cioè quando l’accento è messo pesantemente sulle formule e le
rappresentazioni particolari, diventate degli assoluti. Ogni volta che la
spiritualità autentica cade nella dimenticanza, uno o più maestri tornano a far
brillare la luce sulla terra.
L’ offerta è un tema centrale della
Tradizione (1) ed è dominante nei Veda.
E’ con l’offerta che l’universo è creato
e mantenuto. Niente del mondo può nascere senza offerta, senza sacrificio.
L’essere umano è concepito con il dono (il padre), nasce con un sacrificio (la
madre) e può crescere e prosperare con numerosi altri sacrifici (i due
genitori). Un’opera d’arte o di scienza viene alla luce con un sacrificio di
tempo e di energia. Un prodotto di consumo è fabbricato con il sacrificio di
una certa materia prima e con una quantità d’energia. In guerra la vittoria è
sempre ottenuta a prezzo di grandi sacrifici. Nel gioco degli scacchi, questo
specchio di vita, le vittorie più brillanti sono generalmente il frutto di una
combinazione che comporta all’origine un sacrificio. Dappertutto nell’universo
la vita si manifesta grazie all’offerta, come il fiore che deve anche lui
sparire perché nasca un nuovo albero.
La creazione è l’offerta stessa. Il mondo manifesto è il dono di questo Uno in conoscibile come Uno, ma
conoscibile come “mondo”. Non si può dire che questo Uno è. In quanto Se-stesso non può essere né non-
essere: è l’Unica Realtà e i verbi “essere” e “non essere” sono fuori gioco, inapplicabili a quello che non è
né qualche cosa né niente. E’ solo quando questa cosa è. Il sorgere della forma è la manifestazione di questo
Uno, ma porta anche alla sua scomparsa come Uno. Una cosa è sempre percepita in quanto cosa, se no non
può essere percepita! Quell’Uno si manifesta ritirandosi, viene ad essere scomparendo nell’oblio, un oblio
creatore, in un sacrificio di Se stesso come Se stesso. Si cancella come Se stesso nella comparsa di qualcosa
di percettibile, per essere questa evidenza percepibile.
Paradossalmente, attraverso questa
scomparsa, si manifesta come Io stesso.
Ecco ciò che sarà sempre incomprensibile
per l’intelletto. L’essere umano non arriverà mai a conoscersi e a superare la
sua ignoranza finché non diverrà completamente Quello nello specchio nel suo
sistema nervoso. Ed è col sacrificio, con l’offerta che questo Uno nasce una
seconda volta nell’uomo e questa seconda nascita è quella che si chiama
liberazione o realizzazione. Gesù non diceva giustamente a Nicodemo: “In
verità, in verità ti dico che, a meno di non nascere di nuovo, nessuno può
vedere il Regno di Dio”?
L’uomo si libera per “imitazione” di ciò
che è già e che è all’origine della sua persona, con la quale tende a
identificarsi. Egli riproduce il processo di creazione dell’universo nel suo
sistema nervoso. E’ l’universo stesso. Finché lo ignora e si crede qualcuno, è
vittima dei suoi condizionamenti e spande il caos attorno a lui. Il sacrificio creatore
dell’Uno include anche il “cattivo uso” che ne fa l’uomo. Ma quando questo
prende coscienza della sua vera natura, non pensa più e non agisce in funzione
di uno scopo particolare: diventa il dono, l’offerta, il sacrificio, il “yagya” del Veda. Non si può avere realizzazione spirituale senza questo “yagya”, perché è la definizione stessa
del risveglio, che fa sì che sempre l’Uno si manifesti in tutti gli esseri,
ossia essendo tutti gli esseri. L’offerta, il dono, è quella che chiamiamo
meditazione. E’ riconoscere l’assenza del meditante come entità separata
dall’Uno. E’ veramente sacrificare l’illusoria realtà personale del soggetto
che percepisce e anche dell’oggetto percepito, perché viva completamente l’Uno
nello specchio del sistema nervoso. E’ identificarsi con Lui, pensare come Lui,
agire come Lui. Comprendere questo Uno è essere coscientemente l’Uno. La
visione radicale da cui è sorto l’Inno delle Origini propone di tagliare netto
con l’abitudine usuale e malata di voler trovare una spiegazione orizzontale a
tutto ciò che ci capita. La psicologia, finché tenta di addormentarci nel mondo
della causa storica di ciò che è, perpetua una frode colossale. Il cambiamento
di comportamento dell’essere umano avviene sempre dall’evidenza della
verticalità, diventata possibile con l’abbandono della piatta e buia
orizzontalità del pensiero abituale. Ciò che funziona, fuori e dentro ogni
terapia, è inesplicabile fondamentalmente. E’ una apertura al transpersonale e
questo è sentito nel cuore. Ogni guarigione è miracolosa. Miracolo della Vita.
“All’inizio, sorse una sort di Desiderio…”
Il Desiderio (kama) dell’Inno non è
qualcosa di personale, non c’è alcuno scopo, alcuna strategia da attuare. E’
Puro Amore. E’ per l’ignoranza della sua vera natura che la creatura trasforma
il Desiderio cosmico in desiderio personale, in avidità, in commercio. E’
l’istinto: “in basso c’era l’Istinto”. L’istinto qui è la legge della natura,
l’orizzontalità della causa e dell’effetto, la forza viva dell’universo com’è
espressa nello spazio-tempo, senza che ci sia coscienza della vera natura di
questa forza viva nel sistema nervoso di ogni “creatura”. L’offerta meditativa
è il processo per il quale la natura di Puro Desiderio, o Puro Amore del
meditante è riconosciuta. Non può provenire da uno sforzo della persona. Viene
sempre dall’alto perché è sempre in alto: “in alto la Grazia”.
La questione del Desiderio è capitale. Ciò
che in generale chiamiamo desiderio è l’appropriarsi di un’entità fattuale, la
persona, del movimento naturale della Vita, che è pura Coscienza e pura gioia.
Il compimento del desiderio porta per forza a una gioia incompiuta e
provvisoria. La repressione del desiderio proviene da un altro desiderio e non
porta mai lontano. Tutto ciò che è fondato sull’idea di persona viene da una cattiva lettura di Quello che è.
Questa mancanza d’abilità nasconde la natura vera dell’Uno: come meravigliarsi
se la pace incommensurabile dell’Uno sembra non esserci? Il Desiderio dell’Inno
non ha nessuno scopo. Il desiderio di un essere umano è puro calcolo e vuole
sempre un compenso al suo investimento.
La parola sanscrita Kama significa Puro Amore. L’essenza di ogni cammino spirituale è
la cessazione dell’idea di persona. I desideri cessano automaticamente, non c’è
più un soggetto. Nella Bhagavad Gita,
Krishna insiste sulla rinuncia ai frutti dell’azione.
Il Cristo vive la rinuncia ad ogni forma di
volontà personale e non compie che la volontà del Padre. Tutte le grandi
tradizioni hanno annunciato la grandezza della rinuncia e l’onnipotenza
dell’accontentarsi. Perché così pochi
esseri umani ci sono arrivati? Molto semplicemente perché la maggior parte sono
rimasti qualcuno che vuol rinunciare. Qualcuno non può mai davvero
rinunciare, perché qualcuno non può che volere qualcosa per se stesso. Quando
la rinuncia sembra essere un affare conveniente, allora qualcuno fa una vita da
santo. Ma quando sopravviene una certa trascuratezza o un certo assopimento,
quando altri desideri promettono un rendimento migliore a breve termine, allora
c’è il ritorno ai comportamenti di prima. Straordinaria meditazione: quando non
c’è più nessuno ad appropriarsi del desiderio, è la vera rinuncia. Il sacrificio
autentico non consiste nel privarsi di qualcosa per piacere a una divinità per
ottenere un favore (neanche il paradiso) come in tutte le religioni. E’ l’Atto,
la Vita stessa, nella pienezza del Dono, nell’Offerta aperta. L’Atto non è un
fenomeno dello Spazio-Tempo, non si localizza. Quando la vera natura dell’Uno
risplende attraverso il sistema nervoso dell’essere umano, allora tutto ciò che
questo essere pensa, dice e compie è un riflesso diretto dell’Atto. E’ l’azione
giusta. Non è morale; ma nemmeno immorale! Moralità e immoralità si riferiscono
sempre all’idea di persona e non hanno niente a che vedere con la visione
profonda della Tradizione. Il cambiamento di comportamento è un effetto, mai
una causa. Voler cambiare comportamento, è sempre alla superficie e non va
molto lontano.
“Quanto ai sacrifici, ne identifico due
specie: da una parte quelli degli esseri umani interamente purificati, che è
raro ed è di un solo individuo o di molto pochi- come dice Eraclito-, facili da
enumerare, d’altra parte, i sacrifici materiali, corporali, compiuti nel
divenire e che sono quelli di chi è ancora legato al corpo” (Jamblique, I
misteri d’Egitto V,15).
Profondamente, il sacrificio all’origine
della creazione non è un atto particolare dello spazio-tempo, non un sacrificio
liberatorio, l’atteggiamento meditativo, che consiste in un’attività locale
nello spazio-tempo. I due sono qui-ora, attuali, atemporali. Noi non esistiamo
nel tempo! Non è grazie ad un sacrificio del tempo che possiamo liberarci dal
concetto di essere delle entità che evolvono nel tempo.
Non è che non ci sia niente da compiere
come esseri umani ancora identificati con il corpo o al fatto di essere qualcuno. Al contrario,
una dieta sana e pulita, un minimo d’esercizio, l’equilibrio intelligente tra attività
e riposo, tutto ciò favorisce il funzionamento armonioso del corpo e della
mente, che non è senza rapporto con la pulizia necessaria al risveglio della
nostra vera natura. Un corpo in disordine perde tempo ed energia; al contrario
un corpo pulito ed energico permette di dedicare la sua energia e la sua
attenzione all’investigazione profonda, che è la grande opera dell’incarnazione
umana; la frequentazione di persone e testi ispirati imprime un movimento verso
la chiarezza, senza la quale la liberazione non è possibile. Infine , la
limitazione dalle limitazioni radicate nel corpo e la pratica del pranayama, come è insegnato da millenni,
favoriscono il risveglio e il salire di un’energia senza la quale l’essere
umano non può assolutamente sfondare il muro della comprensione strettamente
intellettuale.
E’ la riproduzione nel sistema nervoso
dell’Ardore cosmico (tapas). E’
chiaro che se non si fa niente, l’essere umano continua a seguire la china
della cristallizzazione della sua energia e della sua visione. Non è mai
questione, in un approccio non-duale che alla fine tutti gli sforzi, tutti gli
scopi ed i programmi siano basati sulla dualità ed è questa che deve cedere. La
“pratica spirituale” è tutto ciò che un essere umano compie coscientemente
riferendosi al silenzio profondo della sua vera natura, sapendo che ciò non può
permetterne l’espansione totale nella sua vita. E’ un atto compiuto nel
distacco, cioè senza sete di guadagno, se no non ha alcun senso.
E’ l’essenza stessa del “yagya” vedico. Il sacrificio è l’Atto,
che è espressione della Pura Apertura che noi siamo, fin dall’inizio. Agire con
uno scopo appesantisce l’azione e la chiude sullo scopo e il suo autore, entità
separata dal tutto, particolare. Ogni cammino che afferma con veemenza allontana
la conoscenza dell’Uno, che è l’Apertura.
Riproducendo in sé il “yagya” dell’Origine, il meditante è l’Origine. E’ questa la vera
conoscenza (2). Il sacrificio è anche venerazione (puja).
Venerare è proprio dell’esistenza ed è
quello che ritrova l’aspirante. Tutto ciò che compie diventa venerazione. La
sua condotta è venerazione della Vita, dell’Uno. Così l’espressione “brahmacarya” designa il celibato
osservato dall’aspirante Ma questa parola significa che prima di tutto si segue
l’esempio di Brahma, dell’Uno, che si
agisce come Lui, che si è Lui. L’espressione “brahmacarya” significa dunque l’atteggiamento aperto sulla stessa
Vita piuttosto che su una forma particolare, e caratterizza il suo
atteggiamento in tutto. L’apertura, o sacrificio non è la soppressione della
gioia, è il regalo della vera via. E così per il respiro. Il vero pranayama non è un particolare esercizio
di respirazione, è il sacrificio del respiro della vita, l’assenza di ogni
traccia di desiderio del respiro.
“In basso era l’Istinto, in alto la Grazia”
L’inspirazione è la Grazia che crea l’individuo retto dall’Istinto, cioè dalle
leggi della natura. L’espirazione è l’offerta di ogni forma dello spazio-tempo.
Nel riposo che segue l’aspirante è nel senza-forma originale dell’Uno, di cui l’Inno
dice che “respirava senza respiro”.
Così, lo sguardo meditativo splende nel
cessare di ogni scopo, di ogni desiderio, di ogni intenzione e pretesa. Tutto
si dissolve nell’attenzione, nel Puro Sguardo. E’ la trasformazione del
desiderio in offerta, il ritorno al senso originale di Kama, l’abolizione del centro di percezione particolare chiamato
“io” per la Pura Percezione che è l’Origine.
Note:
1) Si può chiamare Tradizione il filo
conduttore invisibile che presiede l’espressione chiara e diretta dell’Assoluto.
Mette l’accento su ciò che in noi non cambia. E’ universale e trova belle
formulazioni in tutte le tradizioni spirituali dell’umanità.
2) Che si tratti o no dell’etimologia della
parola, Yagya fa pensare a ya-gya: colui che sa.