Jean Bouchart d’ Orval
L’inno delle Origini e la fine dei tempi – Prima parte
3ème Millénarie n. 43 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini
L’Inno delle Origini (Nasadiya Sukta)
-
Non c’era allora
né il non-essere né l’essere. Non c’era né spazio fisico né spazio sottile. Chi
velava Quello, chi lo proteggeva? Cos’era l’Acqua senza fondo e
l’impenetrabile?
-
Non c’era né morte e nemmeno
immortalità. Non c’era allora alcuna manifestazione della notte e del
giorno. Questo Uno respirava senza respiro, maturo in sé. Cosa
c’era d’altro che Quello? Quale altra delizia poteva esserci?
-
Al primo inizio,
tenebre ricoprivano tenebre. Questa Distesa indistinta era
tutto. In quel tempo, questo Non-nato vuoto, questo Uno onnipotente,
emergendo apparve per il potere dell’Ardore.
-
All’inizio,
si sviluppò una sorta di Desiderio, che fu il primo germe del pensiero. Cercando con saggezza nel più profondo di se stessi
i visionari scoprirono il legame tra il manifesto e il non manifesto.
-
La loro corda era
tesa in orizzontale. Qual era il sotto, qual era il
sopra? Ci furono portatori di semenza e di potenti forze; in basso c’era
l’Istinto, in alto la Grazia.
-
Chi sa in verità?
Chi saprebbe dire qui da dove è apparsa questa creazione, da dove è stata
lanciata? Anche gli dei sono al di qua di questo
emergere. Chi può dire da dove emana?
-
Questa
creazione, da dove emana. Se è
tenuta, o se non lo è, Colui che l’impregna nello
spazio più sottile lo sa senza dubbio, o forse non lo sa…
(Rig Veda X, 129)
Le storie di fine dei tempi tornano periodicamente a eccitare l’immaginazione degli umani che vivono nel tempo.
Cosa c’è di più normale? Ma,
più che le profezie e tutto ciò che è anedottico, ci attira a volte
l’intuizione della “atemporalità”. Anche se non appare che
per un breve istante, lascia tuttavia un’impressione sconvolgente. E’ da
questa intuizione e da questa conseguente impressione
che in noi inizia la ricerca d’Assoluto. Questa ricerca d’assoluto in ogni
essere umano, che lo sappia o no, è quello che ha di più profondo. L’entusiasmo
per “la fine dei tempi” non è che un sintomo della
ricerca d’assoluto.
Cercare la soluzione dell’enigma dell’universo in una fine dei tempi legata agli avvenimenti o in un’origine storica, denota la nostra solita difficoltà, aggrapparci al mondo di causa ed effetto e non uscire dalla spiegazione orizzontale di ciò che a noi sembra “accadere”. Ma i visionari che hanno incarnato la Tradizione (1) in ogni epoca e in ogni luogo, quelli che hanno riconosciuto questa inadeguatezza e si sono sentiti abitati dalla verticalità, hanno visto chiaro e qualcuno l’ha espresso. Il Rig-Veda, senza dubbio la più antica raccolta di testi spirituali che ci sia pervenuto, canta le origini in un Inno chiamato giustamente Inno delle Origini.
Questo Inno del visionario vedico proietta una luce
così penetrante sull’”origine” che può servire da fondamento alla nostra vita
intera. Non si dà nessuna informazione, non si fa
nessun annuncio altisonante da prima pagina. Il tono è sobrio. E’ piuttosto
interrogativo che affermativo. Non che il visionario sia ignorante; al
contrario, è perché sa tutto ciò che deve sapere che si mantiene aperto, in una attenzione sospesa che non osa offuscare con dogmi
vociferanti. Non ci abbozza il quadro con un qualsiasi personaggio epico da
dare in pasto al pensiero. Non c’era né il non essere né l’essere: niente a cui
si possa “pensare”. Non c’è nessuna immagine. L’Inno
sembra parlare all’imperfetto, ma in realtà non c’è tempo per ciò che c’è
all’origine. Che tempo potrebbe coniugare chi
racchiude il tempo in sé? Si potrebbe anche leggere l’Inno al presente, perché
l’origine non è un evento spazio-tempo: è l’unica realtà qui-ora. Forse
l’infinito sarebbe più appropriato…
Ciò che il visionario mette in
rilievo è la inadeguatezza di ogni concetto a cogliere la realtà dell’Origine.
Per poter comunicare, lo nomina “questo Uno”. Ma cos’è questo Uno se non c’era “né il non –essere né
l’essere”? La scena non potrebbe essere
più vuota; niente creatore, niente spazio, niente
tempo, niente essere né non-essere! Il manifesto non proviene da un qualunque
non-manifesto, come se i due fossero prima separati, come se l’Uno non fosse
l’altro. Non concetto d’essere o di non-essere, così come quelli di morte e
d’immortalità si riferiscono alle cose, sottili e grossolane, a tutto ciò che
può esistere o non esistere. I nostri concetti di esistenza
e non-esistenza sono inapplicabili all’Assoluto. Esistenza,
non esistenza, immortalità, tutto ciò non è che immagine, anche se talvolta
l’immagine è utile. Perché Quello dovrebbe
essere immortale se non c’è che Quello? L’intelletto, che non funziona che per
le “cose” e afferra un osservatore in uno spazio e tempo dato, può cogliere
Quello, quell’Uno, “questa distesa indistinta”? Le
facili speculazioni lineari dei filosofi occidentali del dopoguerra
sull’esistenza e l’essenza o quella sull’essere e il nulla
appaiono ridicolmente inadeguate di fronte ad una Realtà, di cui né una
affermazione né una negazione possono scalfirne la superficie. L’universo non
viene né da qualcuno né da qualche luogo né da qualche parte, non viene nemmeno
dal nulla, che è un concetto intellettuale. La non esistenza è data con
l’esistenza e nessuna delle due deriva dall’altra. E’
suggerita l’immagine dell’acqua. Essa non è da nessuna parte e dappertutto,
visibile e invisibile, con e senza forma, secondo le volte. Suggerisce qualcosa
che non ha opposti e perciò tende ad avvicinarsi
all’Uno. E’ il pensiero frammentato che si arrampica a cercare “altra cosa”, a
voler spiegare. Per spiegare, bisognerebbe poter condurre ad un “altra” realtà.
Ora, come canta l’Inno “Cosa c’era d’altro che Quello? Che
altra delizia poteva esserci?”
Eppure c’è l’Universo manifesto… Cos’è perciò questo
stupore? E’ l’emergere di questo “non-nato vuoto”. Come emerge?
Per il potere dell’Ardore (tapas). La
manifestazione della Vita è l’espressione di questa “densità” o “fervore”
dell’Uno. Bisogna lasciarsi toccare da ciò che questa parola evoca, perché
nessun’altra spiegazione è possibile. Lì non c’è solo un processo compiuto una volta per tutte all’”inizio dei tempi”, ma soprattutto
un dato essenziale, indelebile e attuale della Realtà unica. Il visionario
precisa subito dopo che si profila una sorta di desiderio (kama) dietro la manifestazione e che quello è il luogo tra
manifesto e non- manifesto. La parola kama
significa desiderio e amore. Il desiderio qui non concerne una persona o una
cosa; è piuttosto l’apertura essenziale dell’Uno, apertura che sola permette
l’esistenza di tutto ciò che esiste. Un’altra parola per apertura sarebbe
libertà. Ma questa parla nel nostro linguaggio corrente, si riferisce a una persona e non
è adatta pienamente in questo contesto. “E’ perché è possibile e questo Uno è assolutamente senza limite che gli esseri
esistono. Ed è per la stessa evidenza che non esistono”.
L’ Inno conclude con una
serie d’interrogazioni o piuttosto di porte aperte, che sono la stessa immagine
di questo Uno. L’universo come si manifesta diventa possibile attraverso la
domanda aperta. L’Inno termina con l’apertura suprema, perché colui che sa non sa “qualche cosa”. La conclusione non è la
rinuncia alla conoscenza, è la realizzazione che l’ “Origine”
non può essere come si conosce qualcosa; è Quello che è quando tutto ciò che
può essere percepito e nominato come altro da sé si è cancellato e riassorbito
in Quello.
Per la necessità della comunicazione, il testo sembra parlarci di un avvenimento passato, ma quello di cui parla è atemporale. C’è Quello. Non ci si può evidentemente riferire a un inizio prima del tempo. Tutto Quello, quell’Uno, compresa la sua manifestazione, che chiamiamo universo o mondo, tutto quello è dato in blocco, in un momento unico e senza secondo. E’ perché Quello che è all’origine dell’universo è anche Quello che lo sostiene e quello che lo distrugge e lo trasforma. L’offerta creatrice non è separata dal supporto della creazione; è la stessa Realtà, in uno stesso momento.
L’inno del “Supporto cosmico” (skambha) particolarmente le tre strofe seguenti, fanno eco all’Inno
delle Origini:
“Com’è che il vento non cessa di soffiare? Che il pensiero non riposa? Perché
le acque, che cercano di raggiungere la verità, non cessano mai di scorrere?
-
Il grande prodigio nel cuore dell’universo l’attiva alla
superficie della distesa, grazie all’Ardore. Gli Dei, qualsiasi essi siano, si
appoggiano come i rami d’un albero sul tronco.
-
Lui,
a cui gli dei portano senza posa un tributo incommensurabile nello spazio
finito con le mani e i piedi, con la parola, con l’udito e lo sguardo. Parlami di questo supporto: qual è?
(Atharva Veda X, 7 37-39)
(continua…)