3me Mill.: Nella
nostra vita quotidiana è molto questione di energia, e quella questione si pone
spesso in termini di mancanza. Da dove viene quella mancanza d’energia? Come
porvi rimedio?
J. B. Quando
si dice che si manca d’energia, non è veramente che se ne manca, ma piuttosto
che non la si sente più. L’energia è sempre lì. In se stessa non è in quantità
limitata. Ma nei nostri sistemi nervosi individuali,
esiste una certa limitazione. La sensazione di mancanza d’energia viene dalle
fughe! Basta vedere la quantità d’energia colossale spesa in una sola giornata
per salvaguardare ciò che non siamo: ogni nostra
storia, le nostre formazioni mentali. Passiamo molto tempo e spendiamo molta
energia a salvaguardare qualcosa che lasceremo andare alla
sera!
Bisogna guardare il disordine, il caos che mettiamo nel cervello, e
lavoriamo molto per mettervi quel caos. E di notte, il
nostro cervello lavora molto per rimettervi un po’ d’ordine. E’ un doppio sperpero
di energie. Costruiamo e distruggiamo continuamente.
E’ diventato abituale.
Le persone si alzano al mattino e sentono
mancanza d’energia. Non è normale. E’ il segno di un modo di vivere dove non si
vede ciò che si fa. Se lo si vedesse, questo cambierebbe
immediatamente. Viviamo di giorno come addormentati e non arriviamo a dormire
la notte! E’ il contrario di un processo naturale. Non si tratta tanto di
cercare energia, ma piuttosto di vedere ad ogni istante come mi comporto per
dilapidarla.
3me Mill.: Parlate del problema della confusione
interiore, della lotta che si svolge in me sempre.
J.B. Succedono in me conflitti
continuamente. Montagne di condizionamenti mi dicono: prenditi quell’oggetto.
Altre montagne di condizionamenti mi dicono: “non prenderlo”.
Le persone che si mettono nelle
vie spirituali sembrano essere ancora più in conflitto che nella via mondana
abituale, prese tra due blocchi di conflitti. E
aspettiamo la libertà dalla collisione tra due masse continentali, tra due
ghiacciai, ma questo non è possibile. Tutto quello non è che
condizionamento, memoria. Lì non c’è da aspettarsi nulla di nuovo. La libertà,
e anche l’energia, non possono venire da un cammino
nel tempo, da un cammino personale, volontario. La libertà non è nel tempo.
3me Mill.: Se le persone avviate a un percorso di
conoscenza di sé sembrano essere più in conflitto degli altri, forse è dovuto
al fatto che i loro conflitti interiori con il loro percorso diventano più
evidenti?
J.B. E’ uno dei primi sintomi che si
manifestano quando si è stati toccati, scossi da un istante nelle braccia del
silenzio, della libertà. Poi si guarda la propria vita e si vedono molti
elementi che non sono stati chiariti da quell’istante. Ci si mette allora in
cammino coscientemente e, paradossalmente, si ha l’impressione di regredire, di
soffrire più di prima, che il dolore sia più grande.
In realtà, non si fa che sentire di più il dolore che già c’era, perché
la nostra sensibilità si fa più raffinata.
Si sente ciò
che si sta facendo o vivendo. Sulla superficie di un lago la cui acqua è
chiara, il più piccolo sasso avrà un effetto visibile. Al contrario, se l’acqua
è molto torbida, un sasso non farà molta differenza. Quando
vediamo il nostro modo di vivere, qualcosa comincia a depositarsi in sé. Si
opera naturalmente una chiarezza, e vediamo fino a qual punto sia doloroso.
Come ho fatto a vivere così? Ma questo non
cambia dall’oggi al domani, perché è enorme la forza dell’abitudine.
Il fatto di vedere una volta, o dieci volte, non basta, perché
il cielo si rannuvola e si chiude subito. Non c’è abbastanza
energia per fare esplodere tutto, per bruciare i
residui della memoria. Bisogna dunque ritornare continuamente a quella presa di coscienza.
3me Mill.: Questo vuol dire anche che si tratta di ricordarsi,
non con la memoria, ma piuttosto con un movimento interiore, d’energia, che
d’altronde non è personale, che risponde
a una domanda più intima?
J.B. E’ sempre l’energia che ci spinge. Essa non è mai personale, ma
cominciamo a rendercene conto. Quando vivevamo una vita cosiddetta personale, questa energia era già impersonale, ma non ne avevamo
coscienza. Era sempre la stessa energia. Che cos’è
l’energia alla fine? E’ ciò che mi spinge a fare una domanda, a cercare
risposta o a darla, a immaginare un’immagine, a constatare che è un’immagine e
smantellarla. E’ quello che mi resta quando tutte le
immagini sono smantellate, è questa l’energia. Ma
questa volta, niente viene a ricoprirla. E’ senza immagine.
3me Mill.: Non c’è quindi niente da fare salvo guardare
la situazione in termini di pensieri,
emozioni, sensazioni, e così di confusione tra tutti questi elementi della
nostra vita?
J.B. Ogni volta che decido qualcosa,
che ho l’impressione, che mi faccio credere che decido qualcosa, che mi lancio
in un percorso volontario, interventista, ogni volta che decido di intervenire
nella mia vita per modificare il corso degli avvenimenti, mi fuorvio, mi
allontano sempre più ogni volta.
Che cosa posso volere se non il
contenuto della mia memoria? Come farei per volere qualche cosa che non è già
nella memoria? Immagini, e ancora immagini; tracce lasciate dalle esperienze
passate sotto forma di impressioni.
Quando mi lancio in un percorso deliberato,
voglio ricreare il passato.
E perché? Perché
è rassicurante, protegge la mia costruzione.
E’ un riflesso di sopravvivenza. Ogni percorso volontario, compreso
quello spirituale, è un percorso di sopravvivenza. Si tratta spesso di usare
nuove tattiche per non sentire più ciò che si sente
nella propria vita. Non si tratta di smettere le pratiche,
non è questo in gioco. Al contrario questo sarebbe interventismo, l’idea
di poter arrivare ad uno scopo. Questa idea cade a un
dato momento e rimane la pratica nella sua purezza. L’azione, l’energia non sono più rivendicate in nome di un’immagine. L’energia
stessa allora è completamente liberata.
Perché un cammino spirituale è lungo,
quando basta un solo istante? Perché ad ogni tappa, rivendico, mi approprio della pratica. Quel meccanismo egoico
in noi è molto forte. Dispone di tutte le risorse
intellettuali e le usa abbondantemente per la sua sopravvivenza. Quel
meccanismo è così forte che si è nella situazione in cui si mette la
testa sott’acqua. In capo a un minuto, la forza che ce
la fa ritirare è enorme. E’ la stessa intensità che è presente nel meccanismo egoico, che ci fa pretendere una via personale. C’è una
tensione continua, ed è quella tensione che fa sì che
l’energia sia quasi totalmente perduta.
Ma a un certo momento, tutto diventa chiaro. In
quel momento di chiarezza tutto può aprirsi.
Una sola cosa allora funziona: la grazia, l’evidenza di ciò che non sono.
Quando una cosa è evidente, non c’è alcun
bisogno di un professore, di un maestro, di un libro per un consiglio. La via è
azione, diretta.
Il pensiero ha sempre la sua parola, ma sul piano funzionale. Quando ci s’innamora, non si ha bisogno d’altro. L’energia è
lì in abbondanza.
Stentavate a trascinarvi fuori dal letto al
mattino e improvvisamente, una bella sera, fate un incontro meraviglioso.
L’indomani mattina siete un sole, una stella. Ma dov’era prima questa energia? Era prigioniera d’una immagine
di sé, di quella restrizione che è un’immagine. L’incontro ha risvegliato
un’immagine atemporale. Perché, che succede quando si è sedotti da una persona, una tradizione,
un paese? Siamo all’ascolto, senza memoria. Abbiamo la capacità di essere
meravigliati: è la prima volta. La prima volta che si è
sedotti. La seconda volta non lo si è più: ci
si ricorda. La difficoltà è che non è quasi mai più la prima volta. Applichiamo
questo stesso meccanismo alla ricerca spirituale. E’ la quinta volta che
medito, la decima volta, sono vent’anni
che medito… Allora sono diventato un meditatore, un esperto, un saggio. Ci
vuole allora qualcosa di enorme per scuotermi, un
grande colpo.
3me Mill.
La ricerca spirituale richiede l’osservazione. Questa ha diverse
velocità, diverse energie? Se
si propone a qualcuno di osservarsi durante la vita quotidiana, lo fa dapprima
con la testa. La qualità d’osservazione di cui testimoniate è altra da quella osservazione della testa, duale?
J.B. Lo sguardo che osserva è senza
direzione. Si tratta di un’attenzione non direzionale.
Non si osserva nell’intento di migliorarsi, perché se no
è falso in partenza, come guardare un paesaggio con le lenti colorate.
Si tratta di una attenzione senza scelta. Questo
sguardo non è personale. La frase scritta sul tempio de Delfi “conosci te stesso”, non punta verso l’analisi, il confronto. Vedere ciò che è vivente. Chi è che è lì? Sempre lì? Se
poniamo la seguente domanda a una persona. Qual è
l’elemento comune a tutti gli avvenimenti della tua vita, belli e brutti? Vedrà
che è essa stessa.
Ero là per sapere
che ero felice o infelice, che ero alla ricerca.
Non possiamo metterci in cerca di quella cosa, che non è né apparsa
né scomparsa.
Sarebbe un percorso, un’attenzione orientata. Tutto ciò che si può fare è
guardare come si guarda. Guardarmi reagire, guardarmi intervenire nel mio sguardo. Vedere
che mi volto sempre verso la mia memoria. Essere attento. È subito
vedere come sono disattento. E’ tutto quello che c’è da fare. Il resto non è
nelle nostre mani. Non posso fare altro che vedere il modo da cui distolgo l’attenzione.
Si domandava a
Jean Sebastian Bach come faceva a comporre la sua musica e rispondeva che
non era tanto questione di comporre la musica, quanto di non guastarla
alzandosi la mattina: “è Dio che compone
e io scrivo il dettato”. Come persona Bach non c'è, è al servizio della musica. Per noi si tratta
di diventare un buon vivente come Bach era un
buon musicista.
Un buon vivente sente la vita, egli è un
servitore della vita. Il miglior modo di vivere è servire. E’ ciò che si
produce naturalmente quando si smette di credere di
essere ciò che non si è. Finché ci prendiamo per
un’immagine, siamo in un’enorme miseria e non possiamo fare altro che approdare
ogni mattina nella nostra giornata volendo riempirsi, servirsi. Allora il mondo
intero è fatto di pedoni sulla nostra scacchiera, compresi i nostri familiari
ai quali diciamo più volte al giorno di amare. Non si
può che cercare di utilizzare tutto in quella situazione. Ma improvvisamente, si vede il meccanismo, e quella
rivelazione è molto fertile. Quando Gesù è morto, un delle ultime frasi fu: “Non sanno quello che fanno”.
Parlava di noi, degli umani. Noi non sappiamo quello che facciamo. Non vediamo
e ci adoperiamo per non vedere. Il nostro meccanismo egoico fa di tutto per distorcere lo sguardo.
3me Mill.: Voi dite: “essere attenti alla propria
disattenzione”. Il dormiente comincia a dare uno sguardo al suo sonno, ma è
sgradevole. La nostra sofferenza diventa palese. Che
fare di questa sofferenza?
J.B. Ogni sofferenza è rivolta verso
la gioia. Se non ci fosse la gioia, non potremmo
soffrire. Ho il presentimento molto profondo della gioia. Noi abbiamo tutto
questo. Al tempo stesso mi vedo come
qualcosa che non lo vive. L’incontro dei due è intollerabile. E’ quella la
sofferenza. Ogni disturbo, anche piccolo, è un sintomo, un segnale d’allarme…
Quando gli esseri umani soffrono, si
rimettono in questione.
Cominciano a ascoltare, a diventare umili, per
la prima volta. Ma se hanno la disgrazia che le cose
si aggiustano, allora si rimettono a dormire!
Ma dopo essere passati più volte per lo
stesso ciclo emozionale, questo non è più possibile. E’
troppo, ci cadono le braccia. E’ il momento in cui la grazia comincia a entrare nella nostra vita, nel “io non so”. Può accadere
qualcosa di nuovo. Improvvisamente si prende coscienza che si dormiva. Si
comincia a vivere per la prima volta. E vivere è
sentire. Si vede dunque che non si sentiva. Così, prima o poi,
il modo in cui si vive porta alla sofferenza. E’ una grazia, non per il dolore
in sé, ma per l’apertura che porta. La sofferenza non è necessaria, ma quando
dormiamo molto profondamente, lo diventa. Se siamo un
po’ sensibili, bastano piccole prove. Se si è molto
insensibili, saranno necessarie grandi prove per risvegliarci.
3me Mill.: Uno shock, o degli shock sono dunque
necessari. Nello stesso tempo, quando soffriamo, la prima reazione è rifiutare,
lottare. Quella reazione condizionata scatta alla velocità di un lampo. Non si
vede.
J.B. E’ la paura della morte. Il
desiderio di sopravvivenza. Ma quando non c’è più
uscita, quando più nessuno può consolare, né i genitori, né il marito o la
moglie, né i figli o il cane, o la musica, le persone spesso si tolgono la
vita. Paradossalmente, è ancora un meccanismo di sopravvivenza, l’ultima
tattica per sopravvivere. L’immagine che essi hanno di se stessi è troppo minacciata, allora mettono fine alla storia. Ma è ancora un riflesso egoico.
La sola risposta nuova, il solo avvenimento nuovo che possa
accadere è il momento in cui vediamo il nostro modo di vivere, dove noi
improvvisamente siamo lì. La rivelazione è istantanea. Quando
qualcuno fa una buona battuta, c’è il clic, e non si ride al 20% o al 50%. La
risata esplode. Quando si realizza il modo in cui si
vive, qualcosa esplode immediatamente. Non è progressivo. Ciò che è progressivo
è il modo in cui quella rivelazione si attualizza, si espande, nei diversi
elementi della vita. Le memorie sono lunghe da bruciare, ma l’irruzione della
luce non è progressiva e non può nemmeno essere provocata. Le mie azioni non
portano alla chiarezza nella mia vita.
E’ la chiarezza che illumina le mie azioni, porta a
un cambiamento, senza nessun bisogno di disciplina o di sforzo. Non c’è che
l’evidenza che funziona. Se ho ancora bisogno di
sforzi, allora devo guardare come sono ancora preso da certe cose.
3me Mill.: Parlavate di essere lì. Essere lì, è un
sentimento, una sensazione. Quale ruolo gioca il corpo in questo?
J.B. Il corpo ha questo di meraviglioso, che è straordinario.
Lui non racconta storie. È il mezzo privilegiato. Come si fa per sentire la
tristezza? Con il corpo. Continuamente ritornare al corpo, a ciò che è di base, vero. Questo permette di vedere il lato fallace
delle nostre costruzioni mentali. Dire: “ho male a un
ginocchio” è un’immagine. Come si fa per saperlo? E’ tattile. Il resto è della
memoria che dice: “è il mio ginocchio”. Perché soffro quando è quel ginocchio? Perché è
il mio. Costruisco una storia attorno a me, al mio ginocchio. All’inizio, non si tratta che di una sensazione tattile, ma poi
entro nella storia e soffro.
E’ così che si confonde dolore e sofferenza.
Ritornare alla sensazione, è rendere la nostra vita più sana, renderle la salute. Nello stesso tempo, se dico di sentire
il corpo, vedo che ho un’immagine del corpo. Ma
sentire il corpo è sentire tout court. A un certo
momento, sentendo il corpo, si sente che i limiti si spezzano. Il corpo diventa
la stanza, la casa, diventa
senza limiti. Non c’è più localizzazione. Andiamo a
vedere ciò che è il corpo e vedremo che le nostre immagini non tengono. Sentire
è ciò che c’è di più potente. L’attenzione fa esplodere tutte
le nostre storie. Ma c’è sempre quel riflesso egoico,
ed è per quello che dal momento che lo si sente
troppo, si ha tendenza a rifugiarsi di nuovo nei propri concetti, nelle proprie
immagini.
3me Mill.: Si, c’è una resistenza incredibile a sentire
il corpo. Preferisco vivere la mia vita in uno stato meccanico, non sentito.
J.B. Non si arretra davanti ad alcuna
bassezza per sopravvivere un minuto di più, per avere ancora una vita
personale. E’ il riflesso più forte. E’ l’attaccamento alla vita. E noi siamo la vita. Sappiamo intimamente che non possiamo
morire e nello stesso tempo ci prendiamo per qualcosa che, con ogni evidenza,
sarà smantellato. L’incontro dei due nel mio cervello è intollerabile. C’è una
sorta di rivolta. Morire? No, non è possibile. E il presentimento di essere atemporali è in noi. Non
siamo nati, non moriremo. L’universo stesso è atemporale; è lì dall’eternità. Quando comperate
un romanzo, è tutto nelle vostre mani. Ma quando cominciate
a leggerlo, il tempo comincia. Siamo tutti tuffati nelle pagine del libro e ci
dispiace della
fine. Nessuna delle nostre inquietudini è fondata, ma si può soffrire
orribilmente di qualcosa di irreale. Ritornare alla
sensazione permette di essere lì, presente. Se sono
lì, ciò che è nascosto, si svela. Se non sono lì,
nessuno lo sarà al mio posto.
3me Mill.
Parlate di ciò che è nascosto, i nodi emozionali.
Sul piano dell’energia, c’è come una trasformazione dell’energia nel momento in
cui il nodo si scioglie. Che succede a quell’energia?
J.B. Fondamentalmente, niente. Ma è
come se l’energia, durante migliaia di anni fosse
costretta in un turbine o qualcosa che dice: esisto in quanto persona. A un certo momento quel turbine scompare. Non va da nessuna
parte. Quando si soffia sulla fiamma e si spegne,
dov’è andata? Da nessuna parte. Non capita niente all’energia. Era una bella
storia. L’energia è energia.
3me Mill.: Però posso sentire situazioni di sofferenza,
di tristezza, e se permetto alla tristezza di vivere dandole spaziosi trasforma
su un piano energetico.
J.B. Per l’energia in sé, non succede
niente, ma il sistema nervoso è ancora lì. Sento un’abbondanza di energia perché non è più spesa in conflitti
interminabili, resistenze, calcoli, lamenti, esitazioni. Ciò che devo o non devo fare non si pone più. L’energia parte dritta
come una freccia, e il pensiero interviene in modo funzionale. Ma è tutto. Un essere umano liberato vive
in modo diretto gli avvenimenti della vita. Quando cessa la dilapidazione,
l’energia scorre come un torrente e questa energia
rende disponibili ad ascoltare e servire chi ci circonda.
3me Mill.: Questa situazione di chiarezza interiore,
apertura dello sguardo, è sconosciuta all’uomo ordinario.
J.B. E’ poco conosciuta, ma è
normale. Si fa un gran parlare dei
risvegliati, ma sono delle persone normali. Siamo noi gli anormali.
Le persone rinchiuse
negli ospedali psichiatrici non sono diverse da noi, la loro follia ha più
ampiezza della nostra, ma segue lo stesso meccanismo.
Noi viviamo in modo irreale, e quando il meccanismo è palesato attraverso
la grazia della vita, si scioglie. E’ quello il vero abbandono.
Quando il gioco delle energie ha provocato
quello sciogliersi, cosa resta? Tutto ciò che era celato, si è rivelato ed è la
vita normale che appare, la vita senza intermediari.
Un torrente scorre attraverso il corpo, il sistema nervoso, in modo
irrefrenabile. Tutto ciò che era restrizione, tutti i
cammini nei quali l’energia si dilapidava, saltano. Tutto ciò che era
contratto, si dilata. E’ lo svelarsi, in ogni senso della parola. E’ la
liberazione della generosità naturale. Tutto questo richiede di essere attenti,
di guardare ciò che è lì con intensità, con uno sguardo persistente, e tutto si
svela.