Hélène Naudy  

 

Spiritualità o psicologia?

 

 

3ème   Millénaire   n. 83 – Traduzione della dr.ssa Luciana Scalabrini

 

 

Quando siamo nello stato critico di angoscia, tristezza, rabbia, le domande di spiritualità e di psicologia si pongono? Tutto può essere una fuga per non essere in contatto con il reale: la psicologia, la spiritualità, la riflessione tra la due nozioni. Quando siamo toccati dalla grazia, attraversati dalla contemplazione, diciamo “spirituale"? E quando ci stiamo analizzando, riguardando, analizzando, pensiamo “psicologia”?

 

Non è che l’alzare pareti che provoca le lotte tra gli uomini. Quello esalterà la spiritualità, perché quell’approccio gli ha permesso di superare la sofferenza; questo giurerà che non è che attraverso la psicologia, perché grazie a essa ha potuto ritrovare la sua integrità. Forse ce n’è una più giusta dell’altra, più adeguata, più completa? Devono assolutamente trovare un terreno d’intesa? E se per un momento levassimo queste parole dal vocabolario. Se non ci fossero più parole particolari che potessero fare questa distinzione, resterebbero i nostri stati, la nostra capacità di guardarci, la nostra capacità di illuderci. Resterebbero constatazioni o giudizi: “siamo identificati alla nostra costruzione mentale al punto da non potere guardare in faccia che siamo soli a giudicare noi stessi?”

 

Perché  gli individui che praticano la spiritualità sono spesso definiti settari? Perché parlano con parole e concetti che hanno appreso, che li mantengono al di sopra della loro condizione umana e che permettono loro di sfuggire alle emozioni disequilibrate. E il cattolicesimo, il protestantesimo, l’ortodossia sono settarie come i testimoni di Jehova o l’ateismo o perfino il buddismo,  essendo il settarismo non qualcosa che riguarda piccoli gruppi, ma ciascuno di noi per il solo fatto che aderiamo a credenze e opinioni; credenze e opinioni che ci separano dalla realtà. Perché la psicologia ha ai nostri giorni un posto così importante nella nostra società? Perché si riferisce all’umano, in maniera più scientifica della spiritualità, non sviluppa nessuna credenza  o almeno si sforza di restare a contatto con il reale. Perché in un certo senso si vuole terra terra e risponde alla incredibile malattia del nostro mondo occidentale che sono il riconoscimento sociale e sicuramente il materialismo.

 

Per chi ha appreso la lettura col metodo globale e per l’altro che l’ha appresa col metodo sillabico, se c’è stato da parte di ciascuno una reale connivenza con il metodo e un legame di fiducia con l’insegnante, non è solo la tecnica che ha permesso l’apprendimento, ma anche l’ascolto, lo sguardo, l’analisi che ha sviluppato durante quella istruzione. L’individuo che esplora la spiritualità, prima o poi si accorgerà che la sua introspezione è storta, sbilenca, accusando una mancanza, ed è lo stesso per chi esplora la psicologia, se l’esplorazione è sincera.

Lo spirituale s’accorgerà che non si conosce, malgrado il fatto di aver imparato a essere osservatore e gli sembri di metterlo in pratica.

Si, scoprirà che non ha mai scrutato le sue “viscere”, rendendosi conto che si è coperto la faccia, ripetendo e aderendo alle parole pronunciate da coloro che venera: “non siete né la vostra psicologia, né il vostro corpo, ma solo l’essere nel profondo di voi stessi, quell’amore incondizionato, che è instancabile”.

 Scoprirà la sua confusione su questo, vedendo che quelle parole  sono state un pretesto  per mantenersi alla superficie di se stesso, avendo sviluppato inavvertitamente la sindrome dello struzzo riguardo ai suoi stati interiori e ai suoi giudizi. Scoprirà che  si è cammuffato dietro il meraviglioso archetipo del numinoso, dietro quell’amore, si, così meravigliosamente incondizionato che, pensava, non aveva bisogno di riflessione né di alcuna introspezione, abbandonando la sua ombra oscura nell’ombra e nel silenzio, tanto si era murato nei suoi giudizi del tipo giudizio ultimo.

Lo psicologo si renderà conto che la conoscenza che ha di lui è una conoscenza di protezione, di orgoglio, di “io so”.

Si renderà conto che non soffre più come una volta, non perché è guarito dei suoi stati nevrotici, ma perché li ha posti all’interno di se stesso, avendoli aggiustati nel suo corpo fino a che questo non si addormenti e diventi in qualche modo insensibile, essendosi posto al di sopra di questi differenti stati con la pretesa di conoscersi. Si renderà conto di non essersi mai autorizzato a lasciarsi toccare dalle proprie emozioni, che non si è quasi mai presentato a se stesso vulnerabile, e che al fine di corrispondere all’immagine sociale dello “psicologo”, si è sempre presentato agli altri senza difetti, credendo di disporre dell’autorità di quelli che detengono la conoscenza di sé, in apparenza facendo del suo meglio per essere allo stesso livello dei suoi concittadini, in realtà distinguendosi per il suo sapere e mettendosi su un piedistallo.

L’uno e l’altro scopriranno l’orgoglio quasi inerente ad ogni individuo che entra nella conoscenza di sé, un orgoglio che impedisce di ascoltare realmente l’altro e se stesso e la possibilità di un’altra strada se non la propria e che non è certo attraverso il percorso che limita l’individuo nella sua introspezione, ma l’individuo che inconsciamente e secondo le sue inclinazioni sceglierà uno o l’altro percorso per restare alla superficie di se stesso. Perché, si, è l’uomo che crea il percorso, è lui che secondo la sua apertura lo modulerà e lo limiterà, è lui che ha la responsabilità di stabilizzarlo.

A mio parere un seminarista e uno studente di psicologia sono ignoranti sia l’uno che l’altro finchè le loro conoscenze restano mentali, apprese.

Le conoscenze devono  essere verificate nel reale: dal vissuto, senza però formulare conclusioni.

Un seminarista resterà infantile finchè non comprenderà che il desiderio che lo spinge a vivere attraverso la religione (ogni spiritualità oltre che religiosa) è provocata dalla sua paura di affrontare l’umano e i suoi condizionamenti. E che invece di  volgersi verso questa paura, non ha potuto fare altro che rivolgersi a credenze dove il meraviglioso serve come religione o spiritualità. Si rifugerà inconsciamente nell’infantilismo, dicendosi di avere studiato seriamente i testi della religione cui aderisce.

 La più o meno grande rigidità degli uomini “religiosi” denota a qual punto si sono blindati, corazzati e armati, affermando con quell’indurimento la loro paura con preghiere, doveri e ordini ai quali hanno dato la loro anima e di fronte ai quali hanno piegato il capo.

Qui non c’è nessuna umiltà ma solo paura e pretesa.

Paura di vedere la propria imperfezione, pretesa di credere che il proprio sapere è il sapere. L’amore dei “religiosi” non è che esigenza e sommazione, il loro discernimento essendosi annegato nella loro confusione, non è nemmeno più questione d’ipocrisia, ma di smarrimento interiore.

Ma è come il desiderio dello “psicologo” di avere un potere con il sapere da cui potrà pretendere. Questo sapere sarà di tutt’altra specie da quello del seminarista, per il quale è una protezione contro la sua incapacità di sentire e riconoscere la sua paura dell’inconoscibile. Che l’uomo sia messo a confronto con la spiritualità o la psicologia, in realtà si confronta con se stesso, sulla domanda “chi sono?” e certamente mai con qualsiasi altra cosa. Saremo “spirituali” per sfuggire al condizionamento, saremo “psicologi” per sfuggire al non-mentale. L’uomo comincia un percorso e vi si ferma. Corriamo dietro a delle chimere (spiritualità, psicologia) per non essere confrontati con il proprio mondo interiore. Partiamo con una bandiera in mano, alta abbastanza perché non si veda di noi che quel pezzo di stoffa che ci rende tutti uguali finchè ci separa gli uni dagli altri e da noi stessi.

Se non si avessero più nozioni, non ci sarebbe che il nostro stato interiore. La spiritualità, se resta mentale, se non si inscrive nel corpo, nella carne, in una osservazione vergine da punti di vista, ci escluderà da noi stessi, ma bisogna ben vedere che non è lei a fare questo, ma noi che vi ci confondiamo. La psicologia, se non si lega che al sapere appreso, se lo “psicologo” marca sempre la distanza con il suo interlocutore nello stesso modo in cui ha quella distanza con i suoi stati interiori, svilupperà una frattura con se stesso, si separerà da se stesso.

 

Allora psicologia e spiritualità si rivolgono allo stesso uomo che siamo dal momento che viviamo nel presente, dal momento in cui non ci chiudiamo più e non viviamo in opposti interiori del tipo “psicologia o spiritualità?”. Penso a Prajnanpad e al discernimento e perspicacia di cui fa prova prendendo coscienza ed esponendo la mancanza inerente alla spiritualità indiana. Non solo ha sperimentato i limiti della sua tradizione (esperienza che ha attaccato il suo corpo fisico in modo irreversibile), ma in più si è reso conto della poca attenzione e del poco interesse che questa dava al corpo, alle emozioni, a quello attraverso cui tutti passiamo: l'identificazione. La Bhavagad Gita, per quanto luminosa possa essere, non si inscrive nella carne, nel condizionato. Prajnapad ha posto nelle ricerche  di Freud gli elementi indispensabili che permettono di colmare le lacune della sua tradizione.

 

 Ha compreso, visto chiaramente che la spiritualità senza la conoscenza di sé è un’illusione.

 

Come si può morire a se stessi finchè si rimane identificati col mentale? Molti di noi pretendono di conoscersi mentre confondiamo la conoscenza intellettuale e l’ osservazione viva, il parlare della realtà e essere con la realtà.

Pensiamo che  uomini e donne risvegliati lo siano stati per grazia, per fortuna, per un regalo caduto dal cielo; pensiamo che dobbiamo purificarci corporalmente, energeticamente, mentalmente, emozionalmente, psicologicamente per avere quella possibilità… tutto questo denota il nostro infantilismo.

Osserviamo le nostre credenze, le nostre opinioni su questo, vediamo quanto non vogliamo rinunciare ai nostri riferimenti, guardiamoci con gli occhi aperti: guardiamo questo mentale col quale siamo identificati, i nostri innominabili giudizi e la nostra capacità di accusare l’altro, credendo che il giudizio venga dall’altro, guardiamo chiaramente la nostra capacità di proiettare sull’altro il nostro disprezzo, guardiamo quanto ci colpevolizziamo e come quella colpevolizzazione sia prodotta solo dai giudizi che ci infliggiamo, guardiamo quanto ci prendiamo in giro e ci crediamo deboli, stupidi, non interessanti o onnipotenti.

 

La luce non rischiarerà la nostra interiorità, è la nostra oscurità che ci illumina, è con la nostra oscurità che ci vediamo meglio, più distintamente.

La luce non fa che abbagliarci e noi siamo abbagliati. Non abbandoniamo il nostro corpo e le nostre emozioni all'oblio, non farebbero che cristallizzarsi di più, e diventeremmo insensibili e ottusi. Allora nelle nostre tenebre guardiamo le nostre identificazioni e il meccanismo di identificazione con benevolenza, con l’ascolto e la sincerità come sola luce.