La violenza a scuola:
inevitabile condanna o
possibilità e sfida da cogliere?
3ème Millénaire n. 77 – Traduzione della Dr.ssa Luciana Scalabrini
E’ ormai pericoloso insegnare, sul piano del proprio
equilibrio personale e su quello della propria salute mentale, soprattutto se
si rileva che gli insegnanti sono generalmente sensibili, per non dire fragili,
e che nessuna formazione degna di questo nome è stata messa a
punto dall’Istruzione per aiutarli a far fronte alle nuove condizioni
spesso difficili, nelle quali si esercita ormai il loro mestiere.
Questo pericolo è stato messo in
evidenza dai ricercatori e da specialisti del vissuto interiore degli
insegnanti. Il fatto d’insegnare genera, è certo, stress e angoscia, ma vorrei
fare qualche osservazione sulla violenza della e nella scuola con tutt’altro spirito. Con quello del
tutto positivo e costruttivo!
Aprendo prospettive nuove e suggerendo elementi di
risposta, degli inizi di soluzione che poggiano su di
una pratica effettiva e antica dell’insegnamento, su un vissuto reale e non su
semplici idee o semplici teorie.
Per ciò che concerne la violenza a scuola, c’è
sicuramente, in primo luogo, la violenza istituzionale: la violenza
della scuola. La logica “prometeica dell’istruzione” e il peso dell’ideologia
“progressista” fanno si che si eserciti sugli allievi
( e i loro professori!) una vera e propria violenza simbolica e psicologica.
Gli insegnanti attuali si trovano sempre più spesso
davanti a situazioni di crisi in classe, a conflitti più o meno violenti,
potenzialmente destabilizzanti e per la cui gestione non hanno
ricevuto nessuna formazione (iniziale o
continua).
Sarebbe bene che ci domandassimo quali qualità
dovremmo tentare di acquistare per esercitare il nostro mestiere d’ insegnanti, cercando di non essere destabilizzati,
aiutando gli allievi a gestire la violenza interiore e istituzionale e
domandandoci come insegnar loro lo spagnolo, la matematica, il francese o tutte
le altre discipline.
Ecco il quadro generale nel quale vorrei inserire
alcuni appunti un po’ disordinati, suggerendo qualche percorso per imparare a
gestire la violenza, calmando a poco a poco la paura che naturalmente lei ci fa
nascere in noi.
Vorrei in breve affrontare le seguenti idee:
- La classe può essere considerata, sotto certi
aspetti, di cui sarebbe bene favorire l’emergere, come una vera entità
terapeutica e formativa.
Mi sembra, se mi rifaccio alla mia esperienza
d’insegnante, che il fatto di “fare la classe” può avere una vera virtù
terapeutica sia per il professore che per gli allievi. La vita del
gruppo-classe permette la teatralizzazione delle istanze
psicologiche presenti in lui ( e negli allievi) in uno stato di conflitto più o
meno grande. Può permettere una riorganizzazione della
personalità, nel senso di una maggiore
maturità, di una maggiore coerenza, di
una migliore armonia. La violenza, dapprima vissuta come un ostacolo al fine
dell’istruzione e dell’educazione, può trasformarsi nel tempo in un vantaggio.
Può alimentare una ricerca essenziale e essere
l’occasione di uno sviluppo personale.
- Nel quadro di questa nuova
filosofia dell’educazione, io professore
che pretende di educare e istruire gli altri, deve avviarsi volontariamente,
lucidamente, coraggiosamente e con fiducia ad un vero processo di
auto-formazione continua. Si ritrova questo indistruttibile
senso di fiducia in tutta l’opera di Carl Rogers, che pensa, vicino in questo
al buddismo, che l’uomo possiede in se stesso tutte le potenzialità che gli
permetteranno, salvo incidenti di percorso sempre rimediabili, di assicurare
uno sviluppo pieno e totale di se stesso. Parla dell’ “uomo
che funziona a pieno”, e della “tendenza che attualizza”, una forza
direzionale innata che spinge l’organismo vivente a perfezionarsi. Nel suo
ultimo libro “Away of Being” (1980)
scrive: “ogni essere umano possiede una tendenza
direzionale verso l’interezza, verso l’attualizzazione delle proprie
potenzialità. E’ chiaro che la tendenza attualizzante è selettiva e
direzionale, o se volete, costruttiva”.
- La filosofia personalista dell’educazione presuppone
che l’insegnante non consideri gli allievi solo dal punto di vista delle loro
prerogative disciplinari o intellettuali, ma come delle persone,
adottando verso di loro uno sguardo incondizionatamente positivo
e una attitudine empatica, nell’ottica di Carl Rogers.
Il modo che ha Carl Gustav Jung di porre la questione
dell’alterità può ispirare la nostra ricerca. Scrive: “senza
legame consciamente riconosciuto e accettato verso il prossimo non può esserci
alcuna sintesi della personalità” E ancora: “ Il consolidamento interiore
dell’individuo include il prossimo”.
L’individuazione, intesa come “l’accesso del soggetto
alla sua totalità indivisa, si basa su una costante messa in relazione con
l’altro. “L’uomo senza relazione non ha totalità, perché non accede
a questa che attraverso l’anima, che non saprebbe passare dalla sua altra
parte, che si trova sempre nel “tu”- dice Jung. L’antropologia junghiana può
perciò nutrire una nuova psicologia dell’educazione, una nuova attitudine verso
gli allievi. Il processo di auto-educazione, al quale
alludevo prima, può, infatti nutrirsi e ispirarsi al processo
d’individuazione, come l’ha vissuto e teorizzato Jung nella sua vita e con
le sue ricerche.
- Il processo di auto-educazione
può, nel migliore dei casi, assumere una vera dimensione spirituale e
iniziatica.Vicino a questa idea Karlfried Karl
Dürckheim parla del “quotidiano come esercizio”. Il fatto d’insegnare in un contesto difficile, a volte violento, e potenzialmente destabilizzante,
può permetterci di trovare elementi di risposta alla questione del senso.
Questione del senso della nostra pratica sociale e professionale, ma anche e
più in generale della nostra vita.
- La nuova filosofia dell’educazione, la filosofia relazionale,
non significa naturalmente un ripiegarsi più o meno narcisistico su di sé, e
nemmeno un’indulgere alla propria ricerca personale.
Raimòn Pannikkar sviluppa la stimolante
idea dell’arricchimento reciproco, reso possibile dal dialogo diagonale,
dialogo che può e che deve perfino essere violento e senza compiacere per
nulla, ma che non si propone mai una vittoria sull’altro. Gli elementi
di disaccordo permettono a ciascuno di approfondire il proprio cammino e di
scoprire le proprie contraddizioni in una ricerca continua della sua “verità”.
Di fronte alle forme diverse della violenza a scuola,
a mio parere converrebbe che tutti i protagonisti della relazione
educativa, allievi, genitori, consiglieri dell’educazione, ispettori e, perché
no, rettori, unissero i loro sforzi, ciascuno nella sua specialità, le proprie
qualità e il proprio ruolo istituzionale, senza che sia necessario cadere nella
demagogia e nel rifiuto di ogni differenza di
competenza.
In ogni caso, la violenza a scuola, qualsiasi sia la forma
che assume a scuola, è inevitabile. Sarebbe illusorio pretendere di farla
sparire del tutto, nella misura in cui è un elemento costitutivo e normale di ogni relazione umana e di ogni vita in collettività. In
questo contesto, l’insegnante attuale avrebbe tutto
l’interesse ad imparare a gestire al meglio l’angoscia che l’esercizio del suo
mestiere fa inevitabilmente nascere in lui (aspetto terapeutico e
auto-formatore).
L’angoscia ha, paradossalmente, degli aspetti positivi. Krishnamurti ci dice: “Bisogna che sia turbato se
voglio comprendermi. Bisogna che passi attraverso gli sconvolgimenti e delle
angosce terribili per scoprirmi”.
L’attitudine del maestro può sembrare esigente e al di sopra delle forze della maggioranza di noi.
S’accompagna ad una responsabile “etica” nuova, che comporta che ci
confrontiamo sempre con l’Ombra, con la nostra ombra personale ed anche con il
Male in generale. La gestione delle situazioni di crisi e di violenza può
aiutare a quel confronto con l’Ombra.
Le situazioni più difficili e più violente sono anche
quelle che favoriscono lo sviluppo di noi stessi, più elevato e più compiuto.
E’ in ogni caso ciò che mi hanno permesso di imparare trent’anni d’insegnamento
di spagnolo al liceo.
Essere confrontato con l’incertezza, con i cambiamenti
e con la violenza, essere, in generale, a confronto con le difficoltà, può
rivelarsi una opportunità di spiritualizzazione e
di celebrazione, come dice Osho.
Però a condizione che impariamo poco a poco il
coraggio interiore: il coraggio di cambiare, di accogliere il non-conosciuto e
di affrontare la violenza in tutte le sue forme, nonostante le paure che fa nascere in noi.
Insegnare può non essere un “mestiere impossibile”
anche nelle situazioni più difficili, scoraggianti e potenzialmente destabilizzanti;
se abbiamo capito che abbiamo interesse, un interesse dapprima personale, a
conquistare un nuovo modo di essere, fatto di apertura
e di accoglienza all’imprevedibile.
Carl Roger parla di congruenza, forma di accettazione dei propri sentimenti, anche i più negativi
e sgradevoli.
Piuttosto che essere paralizzati dalla paura, dovremmo
accompagnare la vita, o meglio il flusso del vivente, in noi e fuori di noi.
Piuttosto che cedere ad un comprensibile
scoraggiamento, dovremmo provare a partecipare al movimento di reincantesimo
del mondo che, sembra, sprofonda sotto i nostri occhi che non vedono a
volte che la paura e il pessimismo.
Dovremmo tentare di ricollegarci al nostro vecchio
paradigma di civilizzazione, etico e spirituale,che
sta emergendo, dovremmo accompagnare e favorire, secondo le nostre forze e le
nostre possibilità, il movimento di riattualizzazione e di nuova vita di nuovi
miti (antichi), l’attualizzazione degli archetipi nel senso junghiano del
termine, di cui la nostra civilizzazione ha bisogno, per superare la crisi
forse provvisoria che la tormenta e
contribuire così alla nascita di un mondo nuovo.